Tumori neuroendocrini: “Teragnostica la nuova arma a difesa dei pazienti”

Tumori neuroendocrini

In Italia, i tumori neuroendocrini registrano 4/5 nuovi casi ogni 100.000 persone, ma i pazienti vengono diagnosticati in fase avanzata e ci convivono per molti anni.

Puglia, 17 dicembre 2020 – Approccio multidisciplinare, accesso uniforme alle terapie innovative e loro uso appropriato e personalizzato alle caratteristiche del paziente, per stabilire la necessità per le strutture ospedaliere e per il servizio sanitario regionale di introdurre la teragnostica nella pratica clinica.

Questo l’obiettivo del webinar “TERAGNOSTICA SFIDE DI OGGI E PROSPETTIVE FUTURE”, organizzato da MOTORE SANITÀ grazie al contributo incondizionato di Advanced Accelerator Applications, che ha visto la partecipazione dei massimi esperti del panorama sanitario italiano. Questo approccio permette, sin dalla fase diagnostica, di migliorare la stadiazione della patologia, selezionare i pazienti non risponder, definire le terapie successive ed il follow-up. I recenti progressi della ricerca hanno portato all’approvazione della prima terapia radio recettoriale per la presa in carico dei pazienti affetti da tumori neuroendocrini.

 

“I tumori neuroendocrini costituiscono un gruppo eterogeneo di neoplasie che interessano numerosi organi e apparati, e fra essi primariamente il tratto gastroenteropancreatico e quello broncopolmonare. Un tempo considerati rari, i tumori neuroendocrini costituiscono oggi la seconda neoplasia del tratto digerente in termini di prevalenza. Il panorama terapeutico di questi tumori si è notevolmente ampliato nell’arco delle ultime due decadi, con il riconoscimento dell’attività antitumorale e anti secretoria degli analoghi della somatostatina, la dimostrazione dell’efficacia degli agenti biologici everolimus e sunitinib, la conferma dell’attività della chemioterapia in precisi subsets di malattia. Recenti evidenze di ricerca clinica hanno inoltre dimostrato come la terapia con analoghi “caldi” della somatostatina, ovvero analoghi radio marcati con il radionuclide Lutezio 177, fornisca risultati senza precedenti nel trattamento di pazienti affetti da tumori neuroendocrini del tratto gastroenteropancreatico, determinando un significativo beneficio in termini di sopravvivenza. La disponibilità di metodiche di imaging in grado di caratterizzare l’espressione dei recettori della somatostatina (ovvero il bersaglio di questi analoghi radio marcati) sulla superficie delle cellule tumorali consente inoltre la preselezione dei pazienti da arruolare a questa forma di trattamento, in un’ottica di medicina di precisione. Uno degli elementi chiave per il successo di questa forma di terapia è chiaramente rappresentato dalla sinergia fra specialisti con competenze diverse, e un network multidisciplinare è attualmente in fase avanzata di implementazione nell’ambito del territorio regionale pugliese”, ha spiegato Mauro Cives, Ricercatore Dipartimento Scienze Biomediche ed Oncologia Umana, Università degli Studi di Bari

 

“Il termine TERAGNOSTICA è stato coniato in medicina nucleare molti anni fa; infatti, quando questo termine ancora non esisteva, la prima sostanza utilizzata (e lo è ancora oggi) per la diagnosi e la cura del tumore della tiroide è stato l’isotopo 131 dello iodio (Terapia radio metabolica del carcinoma tiroideo differenziato). Questa rinnovata disciplina, la TERAGNOSTICA, include in realtà numerose altre sostanze che sia da sole sia in coppie possono essere utilizzate per questo scopo (molecole marcate con isotopi gamma o positrone emittenti per la diagnostica possono essere marcate anche con isotopi alfa o beta- per la terapia). Queste sostanze (radiofarmaci) si legano su recettori presenti nel bersaglio da trattare o sostanze, come lo iodio, che sono internalizzate dal bersaglio tramite processi metabolici. Pertanto, mediante questi meccanismi è possibile sia localizzare con precisione i tessuti patologici (mediante l’imaging diagnostico) sia distruggerli con dosi elevate e mirate di radiazioni”, ha detto Giammarco Surico, Coordinatore Rete Oncologica ROP Regione Puglia

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Farmaci equivalenti ancora poco utilizzati in Italia: le resistenze del mercato e la diffidenza dei cittadini

Farmaci equivalenti

Gli esperti: «Serve più informazione sui farmaci equivalenti tra medici, farmacisti e pazienti» 16 Dicembre 2020 – L’uso del farmaco equivalente in Italia è ancora basso, pari al 39,6%, rispetto ad altri paesi come Gran Bretagna (53,2%), Germania (45,7%), Francia (45,5%), Spagna (42,3%) e anche rispetto ai farmaci di marca. Nel 2019, l’83,7% di farmaci utilizzati dal sistema sanitario italiano nella farmaceutica convenzionata sono equivalenti, di cui il 53% sono farmaci a brevetto scaduto generici branded e il 30,6% equivalenti. La diffidenza che ferma il mercato italiano all’utilizzo dei farmaci equivalenti ha una duplice natura economica: più è alta la quota di generici puri maggiore è la riduzione di prezzo successiva e più è forte la concorrenza nella riduzione del prezzo (e AIFA rimborserà il prezzo di riferimento che è il generico meno caro); la compartecipazione alla spesa sostenuta dai cittadini (ticket sulla farmaceutica) oggi in Italia ammonta a 1,6 miliardi di euro (15,8% della spesa farmaceutica convenzionata) di cui il 70% è data dalla differenza di prezzo tra il medicinale a brevetto scaduto branded prescritto e il prezzo di riferimento definito dalle liste di trasparenza AIFA, con un valore di spesa pari a 1 miliardo 126 milioni di euro, in crescita del + 7,2% rispetto all’anno precedente. La stessa compartecipazione alla spesa, purtroppo, è anche un freno all’aderenza alle terapie da parte del cittadino. È questo lo scenario emerso durante il webinar “Farmaci equivalenti. Opportunità clinica ed economica. Come proporli in maniera corretta, organizzato da MOTORE SANITÀ, in collaborazione con Mondosanità e con il contributo incondizionato di TEVA.

I farmaci equivalenti rappresentano uno strumento che permette di ottimizzare la spesa farmaceutica non tanto bloccando i consumi, imponendo sconti o tagliando i prezzi, ma mirano ad aumentare l’efficienza del sistema, cioè a dare più salute a parità di risorse spese, attraverso il ripristino della concorrenzialità e stimolando la price competition dei produttori – ha spiegato Giorgio Colombo, Direttore Scientifico Cefat Centro di Economia e valutazione del Farmaco e delle Tecnologie Sanitarie, Università degli Studi di Pavia -. A titolo di esempio, dalla scadenza del brevetto il principio attivo telmisartan ha ottenuto una riduzione del 70% del prezzo, ciò significa che oggi possiamo trattare lo stesso numero di pazienti con telmisartan risparmiando il 70% di spesa, oppure possiamo trattare più pazienti a parità di spesa”.

Ma c’è un aspetto da considerare. “Un miliardo 126 milioni di euro è il valore del ticket che i cittadini pagano per avere un farmaco generico branded, mentre un farmaco equivalente sarebbe offerto ad un prezzo gratuito dallo Stato, ma questo i cittadini non lo sanno. Il semplice stimolo dal lato dell’offerta non è sempre sufficiente a permettere una buona diffusione del farmaco equivalente, solo le nazioni che hanno seguito una politica riguardante anche il lato della domanda (paziente e medico prescrittore) sono riuscite ad aumentare la cultura a favore del farmaco equivalente puro e di incrementare la vendita di farmaci equivalenti. Credo – ha aggiunto Colombo – che sia necessario, in un momento in cui le risorse sono scarse, prima di tagliare la spesa per l’assistenza sanitaria, guardare in primo luogo alle opportunità per migliorare l’efficienza. Tutti i sistemi sanitari ovunque potrebbero ottenere un migliore utilizzo delle risorse attraverso migliori pratiche di acquisto, un uso più ampio di prodotti generici, migliori incentivi per fornitori o procedure amministrative di finanziamento semplificate”.

La compartecipazione alla spesa è anche un freno all’aderenza alle terapie da parte del cittadino. Lo dimostrano diversi studi internazionali. “I risultati dimostrano che quando si cambia la rimborsabilità del farmaco si assiste in tutte le aree terapeutiche ad una riduzione di aderenza alla terapie e accade soprattutto ai soggetti che devono affrontare pluri-terapie al mese – ha concluso Giorgio Colombo -. In questi casi si può arrivare a spendere cifre che vanno oltre i 20-30 euro di compartecipazione e quando si superano queste cifre si assiste sempre e comunque a delle modifiche di aderenza delle terapie da parte di pazienti. La compartecipazione dunque non è semplicemente un problema di ticket, diventa anche un problema di pagamento, che il cittadino può evitare, e anche un problema clinico”.

Francesca Moccia, Vice Segretaria Generale Cittadinanzattiva è stata altrettanto chiara. “Il messaggio non è sempre così univoco, i cittadini colgono queste contraddizioni se non c’è una fiducia nei confronti di medico e farmacisti. Informazione corretta e consapevolezza non significa convincere ma spiegare che esiste la possibilità di scelta. Dobbiamo semplificare la vita alle persone, trovando soluzioni nuove”.

Fin dal 2001 le farmacie hanno dato un contributo notevole alla conoscenza e alla diffusione dei farmaci equivalenti, fornendo quotidianamente ai cittadini informazioni utili a fugare dubbi sulla loro sicurezza ed efficacia. “Purtroppo, talvolta, registriamo ancora resistenze di carattere culturale: alcuni cittadini sono convinti che il prodotto di marca sia più efficace – ha spiegato Marco Cossolo, Presidente Federfarma Nazionale -. Per sfatare simili pregiudizi è necessario che tutti gli operatori sanitari operino in sinergia e diffondano un messaggio univoco, mettendo il paziente al centro di un processo di crescita culturale, basato su un flusso di comunicazione coerente. Le 19 mila farmacie italiane confermano il proprio impegno sul territorio con  l’obiettivo di diffondere capillarmente una corretta informazione sull’utilizzo dei medicinali equivalenti”.

Il cittadino vuole essere certo di trovare in farmacia il farmaco di cui ha bisogno, indipendentemente dalla farmacia in si trova e dal costo che dovrà sostenere. “Il 27% delle persone sono affette da malattie croniche e non si preoccupano di guardare cosa c’è nella scatola, danno per scontato che ci sia un prodotto che qualcuno garantisce – ha spiegato Claudio Cricelli, Presidente SIMG -. Credo che bisogna superare le polemiche “farmaci costosi e farmaci meno costosi” ma bisogna considerare quali sono le ragioni per cui il cittadino, molto più che il medico, scelga per esempio di acquistare un farmaco con il nome commerciale, pagando un differenziale di prezzo: è solo una dinamica che riguarda la sua capacità economica. Quindi non si tratta di liberare risorse ma di spostare delle risorse. La scelta da parte del cittadino di un farmaco branded è legata a consuetudini e a considerazioni pratiche, la più frequente delle quali è quella per cui dovunque vada è certo che lo troverà, mentre il farmaco generico cambia di farmacia in farmacia. In quanto al costo, il differenziale è del 15%-20%, non c’è un abisso tra farmaco generico e farmaco branded”.

Secondo Carmelo Pullara, Vicepresidente VI Commissione Salute, Direttore Generale Territoriale Regione Siciliana i medici di medicina generale, come soggetti erogatori, costituiscono il primo front line per i pazienti e il concetto di spesa e approccio di questi farmaci. “Solo il medico di medicina generale può dare fiducia al paziente sull’utilizzo dei farmaci equivalente. Ma non c’è solo l’importanza da un punto di vista clinico, c’è anche a livello economico perché il loro utilizzo ci può consentire di recuperare delle risorse da reinvestire all’interno del sistema per innalzare la qualità dell’assistenza sanitaria ospedaliera e territoriale”.

Da parte dei medici ospedalieri arriva un appello. “Non esiste un problema di qualità per i farmaci equivalenti ma di cultura e di informazione sul quale lavorare perché chi perde, molto spesso, è il paziente – ha spiegato Francesco Dentali, Presidente Eletto FADOI -. E’ necessaria una campagna di informazione verso il paziente e di informazione e di formazione verso i medici che seppur in percentuali basse, quando il paziente viene dimesso dall’ospedale gli consigliano di acquistare un farmaco griffato”.

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Abbattimento dei costi dell’innovazione terapeutica in oncologia: non più silos ma percorsi trasversali di cura.

Abbattimento dei costi

Le reti possono garantire accesso equo ai nuovi farmaci e corretta informazione agli ammalati

16 Dicembre 2020 – Lo scenario di innovazione tecnologica che si prospetta nei prossimi anni in molte

aree terapeutiche è senz’altro molto ricco di contenuti, che fanno ben sperare i pazienti affetti da malattie

fino a qualche anno fa a prognosi infausta, in una cronicizzazione se non addirittura in alcuni casi in

una guarigione. Un caso paradigmatico di questo evolvere è senz’altro rappresentato dall’oncologia e

dall’oncoematologia, dove lo sforzo di trovare sempre migliori armi per combattere malattie prive di

terapie efficaci e ben tollerate, è stato ed è una vera e propria lotta contro il tempo, per molti ricercatori,

per molti clinici, per molte famiglie. Basti pensare alle ultime linee di terapia del mieloma multiplo per

l’oncoematologia, con aspettativa di vita che non va oltre i 9 mesi, o al tumore ovarico che con 5.200

nuovi casi annui in Italia e circa 30mila le donne attualmente in trattamento, rappresenta il 30% di

tutti i tumori maligni dell’apparato genitale femminile. Ma le tante speranze e la grande voglia di

innovazione devono trovare conciliazione con la sostenibilità dei sistemi sanitari che in tutto il mondo

vedono contrarsi gli investimenti attribuiti alla salute. Le reti oncologiche possono dare un grande

contributo. Per fare il punto sullo stato dell’arte in Regione Veneto, Motore Sanità ha organizzato il terzo

di tre webinar dal titolo “FOCUS VENETO: GOVERNANCE DELL’INNOVAZIONE IN ONCOLOGIA E

ONCOEMATOLOGIA”, che ha visto confrontarsi pazienti, clinici, industria e istituzioni, realizzato grazie al

contributo incondizionato di GLAXOSMITHKLINE e DAIICHI SANKYO.

 

Il carcinoma ovarico è uno di quei tumori che ha avuto in questi anni, in tema di innovazione, una

accelerazione straordinaria cioè sta seguendo, seppur con ritardo, la strada della personalizzazione delle

terapie, della medicina di precisione e della necessità di un sistema organizzato in rete e team

multidisciplinarie per questo potrebbe dare nei prossimi anni grosse soddisfazioni” spiega Giovanni

Scambia, Direttore della Ginecologia Oncologica del Policlinico, Gemelli di Roma.

Ma si pongono due problemi. “In un’epoca di grande innovazione tecnologica bisogna ricordarsi che la

chirurgia è ancora l’arma fondamentale per cui dobbiamo potenziare la nostra Scuola di Chirurgica e

in questo le reti oncologiche ci possono aiutare. In secondo luogo, il tumore ovarico è l’unico tumore in

cui si può fare una chirurgia molecolarmente guidata, ovvero sulla base del dato molecolare attraverso

una chirurgia preventiva possiamo prevenire una quota di tumori ovarici che può arrivare al 15-20%.

Proprio per questo, per il tumore ovarico è importantissimo creare non più silos ma percorsi trasversali

di cura che ci consentano di allocare le risorse all’interno di reti ben predisposte anche sovraregionali”.

 

Le reti oncologiche possono dare anche una risposta di appropriatezza in merito al problema

dell’accesso ai farmaci innovativi e anche delle eventuali disuguaglianze da regione a regione, da

citta e città, da ospedale a ospedale per il loro accesso – spiega Pierfranco Conte, Professore ordinario

di Oncologia Medica dell’Università di Padova e Coordinatore tecnico scientifico della Rete oncologica

veneta (ROV) e Direttore UOC Oncologia Medica 2, IOV IRCCS Padova -. Si tratta di farmaci anche molto

promettenti, ma sicuramente la loro caratteristica è l’innovatività, il che significa che la stragrande

maggioranza degli oncologi che hanno a disposizione questi farmaci non li hanno mai usati, non sanno

come gestirne l’eventuale tossicità, né hanno l’idea diretta e personale di quali sono i pazienti che più hanno

probabilità di beneficiare di questi trattamenti, quindi è necessario insegnare loro come usare questi farmaci

innovativi, attraverso cioè un sistema a rete”.

In Regione Veneto, nel sistema a rete vengono individuati uno o più centri prescrittori di questi farmaci e con

l’aumentare dell’esperienza dei clinici nell’uso di questi farmaci viene ampliata ad altre realtà. Un esempio è

l’immunoterapia nel melanoma, prima riservata unicamente all’istituto oncologico veneto, si è poi ampliata

all’ospedale universitario di Verona e, in una terza fase, ai 5 Hub della rete oncologica, fino all’ampliamento

a tutte le oncologie. “Questo graduale allargamento ha garantito l’appropriatezza, salvaguardato il benessere

dei pazienti ed evitato anche diseguaglianze – prosegue Conte -. Inoltre è estremamente rilevante che

l’innovazione venga sempre trasferita è valutata nella pratica clinica, le reti oncologiche consentono di fare

anche questo e, seppur ancora in modo imperfetto, fornendo delle informazioni importanti”.

 

Sul fronte dei farmaci innovativi ad alto costo per curare il mieloma è già in atto una concertazione con

le aziende farmaceutiche sul prezzo “ma per incidere sulla storia naturale del mieloma e ridurre il numero di

pazienti affetti da questa malattia – spiega  Mauro Krampera, Direttore UOC Ematologia e Centro Trapianto

di Midollo Osseo AOUI Verona – sicuramente bisogna tener conto anche della prevenzione primaria, quindi

cercare di ridurre l’incidenza dei nuovi casi, e poi utilizzare possibilmente terapie radicanti al posto che

terapie che tendono a cronicizzare, e vedremo se le CAR-T mantengono le promesse, e essendo tutti farmaci

 ad alto costo in combinazione possono sforare il budget e la disponibilità finanziaria per cui è necessaria una

concertazione con le aziende farmaceutiche sul prezzo dei farmaci che già quello che si sta facendo”.

 

Chi, soprattutto in questo momento, ha la possibilità di avere una rete oncologica è privilegiato “sia per

produrre PDTA sia per raggiungere il territorio, inteso come ospedali più piccoli e cittadinanza, la quale deve

essere assolutamente informata sulle nuove possibilità terapeutiche” spiega Gianpietro Semenzato,

Coordinatore Tecnico Scientifico Rete Ematologica Veneta (REV) e Professore Ordinario di Ematologia

dell’Università di Padova. “Sulla raccolta di dati è pensabile una cabina di regia che regola in tutta Italia tutti i

pazienti che vengono trattati, ma è di difficile applicazione”.

 

Secondo Valentina Guarneri, Professore Associato Oncologia 2, IOV IRCCS di Padova è necessario fare un

salto in avanti culturale sulla gestione del dato “perché oggi ciò che ci paralizza sono i consensi informati,

le tante autorizzazioni “burocratiche”, abbiamo ormai dei modi di analizzare il dato per cui niente viene a violare

la privacy. Immediatamente all’esplosione della pandemia abbiamo lavorato in tempo reale e creato un protocollo

per la raccolta dei dati dei pazienti oncologici, io personalmente ho dovuto chiedere autorizzazione formale a 25

comitati etici per avere i dati di 25 centri oncologici che avevano aderito a questo processo. Tutto questo è

paralizzante nell’ottica di avere, in un momento soprattutto di emergenza sanitaria in cui si serviva avere in tempo

quasi reale i dati, questo non è accaduto in altro Paesi”.

 

Sull’importanza di un’informazione che sia corretta, bilanciata e aggiornata le Associazioni hanno un ruolo

importante. “Sono in prima linea – spiega Sabrina Nardi, responsabile AIL Pazienti – perché abbiamo visto quanto

l’evoluzione anche della ricerca, l’evoluzione dei saperi dei nostri ematologi progrediscano rapidamente, quindi è

importante che i pazienti abbiano punti di riferimento qualificati credibili”.

 

Infine, secondo Carlo Saccardi, Clinica Ginecologica Ostetrica, Università degli Studi di Padova “la vera sfida è

superare il personalismo per cercare di garantire il massimo che c’è in letteratura e quindi aumentare l’esperienza,

le possibilità di ricerca, la multidisciplinarietà e la comunicazione tra tutti i professionisti anche per migliorare

l’organizzazione, perché nei centri dove c’è grande esperienza c’è maggior organizzazione. Nei momenti di crisi

come questo, una buona organizzazione permette di non cedere sul minimo sindacale per la paziente, e in

oncologia credo che il minimo sindacale sia il massimo possibile, non si può derubricare da questo neanche in

epoca di Covid

 

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L’avanzata dei farmaci equivalenti: «Ampliare in Italia la platea dei consumatori significa sostenere imprese e ricerca liberando i cittadini dal pericolo della dipendenza da produttori stranieri»

farmaci equivalenti

16 Dicembre 2020 – All’evento conclusivo del convegno on line “Farmaci equivalenti. Opportunità clinica ed economica. Come proporli in maniera corretta, organizzato da MOTORE SANITÀ, in ollaborazione con Mondosanità, con il contributo incondizionato di TEVA, è intervenuto Roberto Ciambetti, Presidente del Consiglio regionale del Veneto e Vicepresidente del Bureau del Comitato Europeo delle Regioni (CdR) che ha sottolineato l’importanza che ha questo tema per l’intera Europa, anche in un giorno in cui il presidente Luca Zaia ha candidato Venezia e il Veneto a ospitare la sede dell’autorità per la preparazione della risposta all’emergenza sanitaria e dell’Unione Europea.

Mi auguro che il Governo italiano sostenga questa candidatura, che non solo premia l’intera sanità veneta ma costituisce anche una grande occasione di sviluppo per la nostra regione e per l’intera nazione. Anche in questo contesto, questo dibattito è importante e ha una valenza continentale”.

L’Europa ha l’occasione storica di diventare centro di ricerca, sviluppo e produzione di farmaci equivalenti che avranno un ruolo chiave nell’emancipazione sanitaria di interi continenti.

Il convegno è importante perché si chiede come proporre questi farmaci in maniera corretta, nodo non semplice,  soprattutto in una realtà come quella italiana dove la disinformazione sanitaria ha una vasta e ampia platea, aspetto integrante del problema della diffusione di un’autentica cultura della salute che non può prescindere dal rispetto dell’evidenza scientifica di quanti si sono formati come medici, farmacisti e infermieri. C’è un vuoto clamoroso tra i cittadini di conoscenza, con troppi che si affidano a motori di ricerca e a internet senza capire che la medicina e la farmacia sono scienze, mentre l’incompetenza e l’ignoranza sono malattie pericolose. Riuscire oggi ampliare la platea anche nel nostro paese di consumatori di farmaci equivalenti significa sostenere le imprese, la ricerca, una linea produttiva all’avanguardia, liberando i nostri cittadini dal pericolo della dipendenza da  produttori stranieri e dalle loro forniture. Non dimenticate mai che chi controlla i soldi controlla gli Stati, ma chi controlla alimenti e farmaci controlla i popoli”.

Secondo Roberto Ciambetti il tema dei farmaci equivalenti è strategico per l’intero mondo della sanità non solo Europea, anche se l’Europa in questo può essere il motore di una svolta epocale.

“Sappiamo che in Europa esiste una disparità incredibile nel consumo dei farmaci equivalenti con l’Italia negli ultimi posti della classifica, dominata da Olanda, Germania, Regno Unito, Francia, anche se paradossalmente il 90% dei nostri connazionali, contro una media Europea del 63%, conosce perfettamente i farmaci equivalenti. Nonostante questa conoscenza, anche all’interno della nostra nazione registriamo comportamenti profondamente diversi rispetto alle macro-aree del Nord che vantano il maggior consumo di farmaci equivalenti rispetto al Centro-Sud”.

Con la scadenza della protezione delle proprietà industriali entro la fine di quest’anno più di 90 miliardi di euro di medicinali biologici di prima generazione di grande successo saranno aperti alla concorrenza dei biosimilari.

Per quanto riguarda i farmaci equivalenti, la loro avanzata è inequivocabile a livello planetario catalizzando il 70% del mercato a volumi, 23% a valori, nell’America del Nord, il 62%, 29% a valori, nel mercato europeo, il 40%, il 18% a valori nel mercato giapponese – snocciola i dati Ciambetti -. Questi farmaci sono la principale speranza di cura nei territori africani, 69% a volumi e 49% a valori, asiatici 71% a volumi e 43% a valori, e latino-americani 80% e 65% rispettivamente a valori. In questo scenario l’Unione Europea ha adottato un regolamento che dovrebbe contribuire alla competitività dell’Europa come polo di ricerca, sviluppo e produzione in ambito farmaceutico”.

Secondo studi fatti prima dell’ondata del Covid-19, nei prossimi dieci anni la produzione europea dovrebbe conoscere un aumento annuo, costante delle vendite, nette all’esportazione, con la creazione di almeno 20.000-25.000 posti di lavoro, pari a circa un incremento del 10% della forza lavoro oggi esistente nel comparto.

Probabilmente l’epidemia Sars-Cov-2 porterà ad un’accelerazione ulteriore, stante la necessità di conciliare gli equilibri di bilancio con l’esigenza di garantire a tutti l’accesso alle cure. La salute non ha prezzo, ma la sanità ha un costo, non dimentichiamolo mai, e ogni forma di razionalizzazione e contenimento della spesa ben venga. I farmaci equivalenti portano risparmi, curano non solo l’essere umano ma anche i conti

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Farmaci equivalenti: “Dopo anni, pur garantendo sostenibilità al SSN e risparmio ai cittadini, il loro uso in Italia è ancora a macchia di leopardo”

Farmaci equivalenti

15 dicembre 2020 – I farmaci equivalenti avendo stesso principio attivo, concentrazione, forma farmaceutica, via di somministrazione e indicazioni di un farmaco di marca non più coperto da brevetto (originator), sono dal punto di vista terapeutico, equivalenti al prodotto di marca ma molto più economici, con risparmi che vanno da un minimo del 20% ad oltre il 50%. Questo è fondamentale per mantenere sostenibile l’SSN, consentendo da un lato di liberare risorse indispensabili a garantire una sempre maggiore disponibilità di farmaci innovativi, dall’altro, al cittadino di risparmiare di propria tasca all’atto dell’acquisto dei medicinali. Ma l’uso del farmaco equivalente in Italia è ancora basso rispetto ai medicinali di marca, dall’analisi dei consumi per area geografica, nei primi nove mesi 2019 si è visto come il consumo degli equivalenti di classe A sia risultato maggiore al Nord (37,3% unità e 29,1% valori), rispetto al Centro (27,9%; 22,5%) e al Sud Italia (22,4%; 18,1%). Per fare il punto sulla situazione in Italia, ultimo di una serie di appuntamenti, MOTORE SANITÀ, in collaborazione con Mondosanità, ha organizzato il Webinar ‘FARMACI EQUIVALENTI OPPORTUNITÀ CLINICA ED ECONOMICA: COME PROPORLI IN MANIERA CORRETTA’, realizzato grazie al contributo incondizionato di TEVA.

Le farmacie, fin dal 2001, hanno dato un contributo notevole alla conoscenza e alla diffusione dei farmaci  equivalenti, fornendo quotidianamente ai cittadini informazioni utili a fugare dubbi sulla loro sicurezza ed efficacia. Purtroppo, talvolta, registriamo ancora resistenze di carattere culturale: alcuni cittadini sono convinti che il prodotto di marca sia più efficace. Per sfatare simili pregiudizi è necessario che tutti gli operatori sanitari operino in sinergia e diffondano un messaggio univoco, mettendo il paziente al centro di un processo di crescita culturale, basato su un flusso di comunicazione coerente. Le 19.000 farmacie italiane confermano il proprio impegno sul territorio con l’obiettivo di diffondere capillarmente una corretta informazione sull’utilizzo dei medicinali equivalenti”, ha spiegato Marco Cossolo, Presidente Federfarma Nazionale

“È stato un importante confronto che ha dimostrato la necessità che tutti gli stakeholder continuino a parlare del  valore del farmaco equivalente.  La sfida è lavorare insieme per avere azioni concrete a livello locale, regionale per aumentare l’utilizzo di farmaci equivalenti”, ha aggiunto Umberto Comberiati, Business Unit Head Teva Pharmaceutical

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ONCOLOGIA e ONCOEMATOLOGIA: “Collaborazione e comunicazione per garantire innovazione e sostenibilità al servizio del paziente”

ONCOLOGIA e ONCOEMATOLOGIA

15 dicembre 2020 – L’attuale pandemia Covid-19 ha fatto comprendere come il sistema salute negli ultimi anni sia stato continuamente depauperato di mezzi e risorse, volendo mantenere il paziente al centro del sistema, tutto deve essere volto per garantirgli un beneficio in termini di salute e di vita. Tra le innumerevoli innovazioni terapeutiche in oncologia e oncoematologia si è arrivati alla scoperta del BCMA e della sua azione nello sviluppo del mieloma multiplo, svolta decisiva nel trattamento dei pazienti refrattari: l’antigene di maturazione delle cellule B, infatti, si è rivelato bersaglio ideale per l’immunoterapia target del mieloma multiplo. Ma le speranze nell’innovazione devono conciliarsi con la sostenibilità dei sistemi sanitari che in tutto il mondo vedono diminuire gli investimenti nella salute. Per fare il punto sullo stato dell’arte in Regione Veneto, Motore Sanità ha organizzato il terzo di tre webinar dal titolo “FOCUS VENETO: GOVERNANCE DELL’INNOVAZIONE IN ONCOLOGIA E ONCOEMATOLOGIA”, che ha visto confrontarsi pazienti, clinici, industria e istituzioni, realizzato grazie al contributo incondizionato di GLAXOSMITHKLINE e DAIICHI SANKYO.

“Le nuove terapie con bersagli molecolari, l’immunoterapia e le terapie geniche, viste oggi nell’ampio contesto dell’ematologia cosiddetta di precisione, hanno radicalmente cambiato le prospettive e la qualità della vita dei pazienti affetti da patologie oncoematologiche. La possibilità di utilizzare terapie diversificate, personalizzate per ogni singolo paziente, crea la necessità di competenze ultra specialistiche e rende di conseguenza prioritario il ruolo delle Reti. Vieppiù in tempi di COVID, in cui la mobilità è limitata e in assenza di opportunità congressuali di aggiornamento, chi può avvalersi delle reti risulta facilitato; i networks sono fondamentali per sopperire alle carenze che la situazione impone. Il problema oggi è il coinvolgimento del territorio, e questo si esplica attraverso l’applicazione dei PDTA, ma non solo. Far partecipe il territorio, infatti, non implica soltanto coinvolgere i centri di cura più piccoli e periferici con i protocolli terapeutici più innovativi ma significa anche raggiungere la Cittadinanza per una adeguata informazione. Sempre tornando al tema COVID non deve verificarsi quanto, ad esempio, purtroppo accade con il fenomeno del negazionismo, frutto essenzialmente di una ignoranza figlia di una scarsa informazione. Per questo le Reti, in quanto strumenti per coordinare l’innovazione, sono ora e lo saranno maggiormente nel futuro un valore aggiunto imprescindibile”, ha detto Gianpietro Semenzato, Coordinatore Tecnico Scientifico Rete Ematologica Veneta (REV) – Professore Ordinario di Ematologia dell’Università̀ di Padova

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CAR-T al tempo della pandemia COVID-19: “La best practice della Regione Emilia-Romagna a supporto del paziente”

CAR-T al tempo della pandemia

15 dicembre 2020 – L’innovazione portata dalle terapie CAR-T rappresenta uno dei traguardi medici più importanti del nuovo secolo nella battaglia contro i tumori. Per l’evoluzione futura sarà richiesto tempo, approfondimenti ed osservazioni, così come nuovi protocolli di ricerca e molto altro. Nell’attuale situazione Covid-19, però, servono immediatamente nuovi modelli organizzativi rapidamente applicabili, facendo tesoro delle buone pratiche messe in atto dalle singole Regioni durante le prime esperienze di utilizzo. Per condividere soluzioni da adottare per risolvere i problemi organizzativi, amministrativi e clinici legati alla pandemia, Motore Sanità ha organizzato, in Emilia-Romagna, il Webinar ‘BEST PRACTICE ORGANIZZATIVE IN TEMPO DI COVID: IL PERCORSO DEL PAZIENTE SOTTOPOSTO A CAR-T’, realizzato grazie al contributo incondizionato di GILEAD e Kite.

“Il 7 agosto 2019 l’Agenzia Italiana del Farmaco ha dato il via libera alla rimborsabilità della prima terapia a base di cellule CAR-T (Chimeric Antigen Receptor T-cell) disponibile in Italia. Nel documento ufficiale di AIFA la nuova terapia, denominata Kymriah (tisagenlecleucel), è definita prescritta secondo le indicazioni approvate da EMA e utilizzata presso i centri specialistici identificati e selezionati dalle Regioni, per pazienti adulti con linfoma diffuso a grandi cellule B (DLBCL) resistenti alle altre terapie o nei quali la malattia sia ricomparsa dopo una risposta ai trattamenti standard e per pazienti fino a 25 anni di età con leucemia linfoblastica acuta (LLA) a cellule B. In ottobre 2019 l’Emilia-Romagna ha pubblicato ufficialmente la delibera che formalizza le decisioni assunte dalla Commissione Regionale Farmaci (DETERMINAZIONE Num. 18521 del 14/10/2019 BOLOGNA) e che attribuisce al Policlinico Sant’Orsola-Malpighi la gestione della Terapia CAR-T, centro specialistico citato anche nei documenti di AIFA. Le decisioni assunte a livello Nazionale e Regionale sull’uso del farmaco prevedono che siano scelti Centri Specialistici Regionali adeguati ai criteri minimi stabiliti dall’Agenzia Italiana del Farmaco, su parere della commissione consultiva tecnico-scientifica, affiancati alle autorizzazioni previste per legge (certificazione del centro nazionale trapianti in accordo con le direttive EU; – accreditamento JACIE per trapianto allogenico comprendente unità clinica, unità di raccolta ed unità di processazione; – disponibilità di un’unità di terapia intensiva e rianimazione; – presenza di un team multidisciplinare adeguato alla gestione clinica del paziente e delle possibili complicanze (G.U. n.188 del 12-08-2019)). La Regione Emilia Romagna con la Commissione Regionale Farmaci di alto profilo, con la collaborazione con la Commissione Tecnico Scientifica di AIFA, di cui fa parte la Coordinatrice della CRF regionale, dr.ssa Marata Anna Maria, garantisce una verifica di attuazione e valutazione continua della gestione adeguata e aggiornata disponibile ad impegno su eventuali modifiche”, ha spiegato Valentina Solfrini, Direzione Generale Cura della Persona, Salute e Welfare, Servizio Assistenza Territoriale, Area Farmaci e Dispositivi Medici, Regione Emilia-Romagna

“La terapia CAR T rappresenta il nuovo fronte di trattamento per pazienti con leucemia linfoblastica acuta o linfoma non rispondere agli usuali trattamenti. Oltre ad una innovativa terapia salva vita rappresenta una sfida organizzativa e l’attuale pandemia COVID ne ha praticamente bloccato l’applicazione. È assolutamente importante ripartire  esaminando i vari stop del percorso diagnostico terapeutico per poter trattare pazienti che altrimenti non avrebbero altre possibilità di sopravvivenza ricordando che oltre ad i pazienti affetti da coronavirus l’impegno è quello di continuare a trattare le altre patologie altrettanto complesse e talora mortali”, ha detto Claudio Zanon, Direttore Scientifico Osservatorio di Motore Sanità

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L’innovazione tecnologica in sanità non aspetta. «E’ urgente per migliore la valorizzazione di farmaci e devices e la gestione del territorio»

innovazione tecnologica

14 Dicembre 2020 – Secondo l’analisi annuale sulla competenza digitale dei Paesi europei condotta dalla Commissione Europea, nel 2020 l’Italia si colloca al venticinquesimo posto su totali 28. La Commissione giudica gli italiani “immaturi, impreparati e incompetenti digitalmente”. L’aspetto più positivo e che queste incompetenze sono diffuse in modo equo tra tutte le categorie professionali compresa quella dei medici. L’innovazione tecnologica in sanità non aspetta. La pandemia ha dimostrato come essere tecnologicamente avanzati possa essere la chiave di volta per un sistema sanitario nazionale in grado di affrontare le sfide attuali, come l’emergenza sanitaria e del futuro. Tra queste sfide anche la valorizzazione dei farmaci e dei devices che ancora incontra difficoltà di ottenere un valore coerente sull’intero percorso di cure e sull’organizzazione assistenziale. Nella seconda puntata del webinar “Academy, il valore del farmaco e dei devices” organizzato da Motore Sanità, con il contributo incondizionato di Bristol Myers Squibb e Teva, gli addetti ai lavori si appellano alla valorizzazione in un’ottica di investimento piuttosto che di costo.

La trasformazione digitale è un aspetto di cultura e di organizzazione, non di tecnologia. La tecnologia è semplicemente ciò che abilità questo cambiamento. Ne è convinto Giuseppe Recchia, Vice Presidente Fondazione Smith Kline di Verona. Siamo un paese arretrato, non utilizziamo la tecnologia che altri Paesi utilizzano da sempre e qualcuno ha anche messo in relazione l’indice di letalità per Covid in Italia con la disponibilità di tecnologie digitali usate in altri paesi. Non c’è nessun motivo per cui non si trasformi tecnologicamente anche l’area della salute e la sanità. Dobbiamo ricordare che l’attore protagonista non è il medico, è il paziente e il suo telefono. Purtroppo l’Italia è un paese che ha un sistema operativo del ’92 e che cerca di usare programmi applicativi del 2021. Spero che dei 40 miliardi dedicati alla digitalizzazione una gran parte sia dedicata alla digitalizzazione in sanità e che non si debba trovare all’interno dei 9 miliardi, perché altrimenti rimarremo un Paese con un sistema operativo ormai ampiamente obsoleto. Fino a quando non entriamo in modo molto più deciso nel mondo della medicina digitare avremo dei problemi sempre maggiori”.

La nuova normativa che regolerà l’introduzione dei medical devices in Europa e che entrerà in vigore posticipatamente rispetto alle aspettative a causa della pandemia, quindi a maggio 2021, risponde alla domanda di valore da attribuire ai medical devices, perché fa maggiore chiarezza nei confronti di quelli tecnologicamente avanzati, quelli che fanno uso esclusivamente di software e non soltanto di dispositivi tradizionale, fino ad arrivare in parte alle terapie digitali. “La nuova normativa richiede un approccio ancora più sistematico e rigoroso rispetto alla vecchia direttiva, richiedendo una maggiore evidenza scientifica portata a supporto dell’impiego e dell’utilizzo dei devices medici – spiega Eugenio Santoro, Responsabile Laboratorio di Informatica Medica, Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS Milano -. L’obiettivo è creare valore in termini di salute delle persone, aumentare la sicurezza di questi strumenti e soprattutto aumentarne la loro la loro efficacia. Questo ha fatto sì che molte aziende che producono questi strumenti devono adeguarsi per creare valore e fare sperimentazione clinica. Da qui l’importanza della partnership fra fornitori e comunità scientifica che deve essere vista come un incentivo ad aumentare una partnership che fino ad oggi è stata molto limitata, a creare occasioni di ricerca e sinergie che fino ad ora non ci sono state e offrire maggiori garanzie che questi strumenti siano innanzitutto sicuri e successivamente che siano che siano efficaci”.  

Il valore dei farmaci in oncologia si misura in termini di sopravvivenza e qualità di vita dei pazienti. L’immunoterapia, per esempio, ha determinato un 20-30% di lungo sopravviventi anche in patologie molto difficili in cui non c’erano queste aspettative di vita (tumore del polmone, melanoma). Abbiamo dato anni di vita grazie alle terapie innovative e lo dimostrano anche i 3.600.000 lungo sopravviventi che i dati epidemiologici ci dimostrano annualmente in ambito oncologico italiano – spiega Rossana Berardi, Direttore Clinica Oncologica UNIVPM-AOU Ospedali Riuniti di Ancona -. Nuovi farmaci possono essere un’opportunità se si differenziano, per esempio, per profilo di tossicità e tollerabilità. In questo senso le società internazionali stanno da anni sottolineando quanto sia importante avere dei parametri standardizzati per valutare l’entità del beneficio e altri strumenti quali la tossicità, la qualità della vita, e guardare anche alla sostenibilità del sistema. Forse il Covid ci ha insegnato che dobbiamo muoverci verso un cambio di mentalità. Cambiare mentalità significa fare riferimento all’appropriatezza, come strumento per pianificare e ottimizzare i processi terapeutici, e all’organizzazione a rete”.

L’introduzione di sistemi digitali per migliorare le capacità diagnostiche o per migliorare l’aderenza dei pazienti ad assumere nuove terapie potrebbe essere estremamente importante se rimborsataAldo Pietro Maggioni, Direttore Centro studi ANMCO -. Forse sarebbe il caso di creare un nuovo silos di costi per le terapie digitali o in generale per l’uso di Digital Health o di Digital therapeutic specificamente, probabilmente è proprio il caso di continuare a fare queste riflessioni per arrivare veramente ad un rimborso per percorso per patologia e non per le singole voci. So che è difficile e complesso e che ne parliamo da tanti anni, ma fino ad oggi mi pare che non ci siano fatto molto in questo senso”.

Il Covid ha dimostrato che nuove tecnologie all’avanguardia possono essere uno strumento di monitoraggio strategico per contenere la pandemia e pe risollevare il territorio, che ancora fatica ad essere supportata dalle nuove tecnologie. Quella dei medici di medicina generale rappresenta una professione raramente e sporadicamente ben organizzata, con attrezzature, personale di studio, tecnologie sanitarie spesso inesistenti, risorse economiche inadeguate, una quantità di compiti, mansioni e prospettive di lavoro che hanno bisogno di anni per essere integrati adeguatamente in uno schema e in strutture professionale pensate a ribasso” spiega Claudio Cricelli, Presidente Nazionale SIMG.

Quello che manca al medico di medicina generale per poter rispondere ai bisogni dei propri assistiti pazienti è un’organizzazione dove anche la specialistica e la diagnostica sono tenute presenti – spiega Gabriella Levato, medico di medicina generale di Milano –. Si parla di microteam ma possiamo anche pensare a formule più evolute dove ci sono gli infermieri, il medico di medicina generale, lo specialista e chi fa diagnostica, perché diventa difficile con un carico di assistiti anche occuparsi di altro, compresa la formazione. E a proposito di questo, prima del Covid i corsi di formazione medicinale in Lombardia sono stati indirizzati per creare all’interno di ogni percorso formativo anche un’esperienza di tipo ecografico o di altro tipo, ma la pandemia ha fermato tutto”.

Regione Lombardia ha predisposto Micro-bio, una rete che interconnette “machine-to-machine” tutti i Lis dei laboratorio di analisi pubblici, oggi circa 25 e a cui questi inviano giornalmente gli esami di microbiologia svolti sugli assistiti in Lombardia sia in regime di ricovero sia in regime ambulatoriale. “Un esempio di applicazione riguarda la sorveglianza delle infezioni correlate all’assistenza negli ospedali attraverso l’invio di segnalazioni  complete da tutte le microbiologia accreditate in Lombardia – spiega Simone Schiatti, Responsabile Governo Farmaceutica, protesica e dispositivi ARIA Spa Lombardia –. La rilevazione delle antibiotico resistenze favorisce l’utilizzo delle informazioni a supporto dell’appropriatezza prescrittiva dei medici di medicina generale i quali possono acquisire i dati di resistenza antibiotica dei propri cittadini dal sistema micro-bio ed essere supportati alla corretta prescrizione degli antibiotici più efficaci. E’ noto che alcune infezioni antibiotico-resistenti possono rimanere addormentate e manifestarsi dopo un mese di incubazione in un assistito. Queste occorrenze costituiscono eventi gravi che minano sia la salute dei cittadini sia la disponibilità delle sale operatorie e reparti che possono essere nel tempo compromesse con diffusione dell’infezione e conseguenti costi sociali ed economici.”.

Bisogna essere efficaci e al passo con i tempi perché questa grande innovazione che si è avuta in questi ultimi  anni è ormai alle porte e potrebbe vederci impreparati – spiega Ugo Trama, Direttore Politica del Farmaco e Dispositivi, Regione Campania -. Se non c’è una cabina di regia nazionale che riveda anche l’interlocuzione tra le varie regioni, rischiamo di non rendere disponibili questi grandi progressi che si sono fatti. Penso ad una cabina di regia nazionale forte quando si parla di innovazione perché l’innovazione non è alla portata di tutti, non tutte le  regioni possono avere l’expertise per poterla gestire ed è giusto che si sia una condivisione nazionale per rendere in maniera pratica e applicativa quello che arriverà, affinché vengano affrontati in maniera equa le terapie a livello nazionale”.

La tecnologia deve avere una governance precisa – conclude Claudio Zanon, Direttore Scientifico Osservatorio  Motore Sanità – ma ricordiamoci sempre che formazione vuol dire competenza, ma la competenza non può essere la giustificazione per non continuare a fare formazione e la formazione non può essere la giustificazione per non  cercare la migliore competenza”.

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L’innovazione tecnologica in sanità non aspetta

innovazione tecnologica

«E’ urgente per migliore la valorizzazione di farmaci e devices e la gestione del territorio»

14 Dicembre 2020 – Secondo l’analisi annuale sulla competenza digitale dei Paesi europei condotta dalla Commissione Europea, nel 2020 l’Italia si colloca al venticinquesimo posto su totali 28. La Commissione giudica gli italiani “immaturi, impreparati e incompetenti digitalmente”. L’aspetto più positivo e che queste incompetenze sono diffuse in modo equo tra tutte le categorie professionali compresa quella dei medici. L’innovazione tecnologica in sanità non aspetta. La pandemia ha dimostrato come essere tecnologicamente avanzati possa essere la chiave di volta per un sistema sanitario nazionale in grado di affrontare le sfide attuali, come l’emergenza sanitaria e del futuro.

Tra queste sfide anche la valorizzazione dei farmaci e dei devices che ancora incontra difficoltà di ottenere un valore coerente sull’intero percorso di cure e sull’organizzazione assistenziale.

Nella seconda puntata del webinar “Academy, il valore del farmaco e dei devices” organizzato da Motore Sanità, con il contributo incondizionato di Bristol Myers Squibb e Teva, gli addetti ai lavori si appellano alla valorizzazione in un’ottica di investimento piuttosto che di costo.

La trasformazione digitale è un aspetto di cultura e di organizzazione, non di tecnologia. La tecnologia è semplicemente ciò che abilità questo cambiamento. Ne è convinto Giuseppe Recchia, Vice Presidente Fondazione Smith Kline di Verona.

Siamo un paese arretrato, non utilizziamo la tecnologia che altri Paesi utilizzano da sempre e qualcuno ha anche messo in relazione l’indice di letalità per Covid in Italia con la disponibilità di tecnologie digitali usate in altri paesi. Non c’è nessun motivo per cui non si trasformi tecnologicamente anche l’area della salute e la sanità. Dobbiamo ricordare che l’attore protagonista non è il medico, è il paziente e il suo telefono. Purtroppo l’Italia è un paese che ha un sistema operativo del ’92 e che cerca di usare programmi applicativi del 2021. Spero che dei 40 miliardi dedicati alla digitalizzazione una gran parte sia dedicata alla digitalizzazione in sanità e che non si debba trovare all’interno dei 9 miliardi, perché altrimenti rimarremo un Paese con un sistema operativo ormai ampiamente obsoleto. Fino a quando non entriamo in modo molto più deciso nel mondo della medicina digitare avremo dei problemi sempre maggiori”.

La nuova normativa che regolerà l’introduzione dei medical devices in Europa e che entrerà in vigore posticipatamente rispetto alle aspettative a causa della pandemia, quindi a maggio 2021, risponde alla domanda di valore da attribuire ai medical devices, perché fa maggiore chiarezza nei confronti di quelli tecnologicamente avanzati, quelli che fanno uso esclusivamente di software e non soltanto di dispositivi tradizionale, fino ad arrivare in parte alle terapie digitali.

“La nuova normativa richiede un approccio ancora più sistematico e rigoroso rispetto alla vecchia direttiva, richiedendo una maggiore evidenza scientifica portata a supporto dell’impiego e dell’utilizzo dei devices medici – spiega Eugenio Santoro, Responsabile Laboratorio di Informatica Medica, Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS Milano -. L’obiettivo è creare valore in termini di salute delle persone, aumentare la sicurezza di questi strumenti e soprattutto aumentarne la loro la loro efficacia. Questo ha fatto sì che molte aziende che producono questi strumenti devono adeguarsi per creare valore e fare sperimentazione clinica. Da qui l’importanza della partnership fra fornitori e comunità scientifica che deve essere vista come un incentivo ad aumentare una partnership che fino ad oggi è stata molto limitata, a creare occasioni di ricerca e sinergie che fino ad ora non ci sono state e offrire maggiori garanzie che questi strumenti siano innanzitutto sicuri e successivamente che siano che siano efficaci”.  

Il valore dei farmaci in oncologia si misura in termini di sopravvivenza e qualità di vita dei pazienti.

L’immunoterapia, per esempio, ha determinato un 20-30% di lungo sopravviventi anche in patologie molto difficili in cui non c’erano queste aspettative di vita (tumore del polmone, melanoma).

Abbiamo dato anni di vita grazie alle terapie innovative e lo dimostrano anche i 3.600.000 lungo sopravviventi che i dati epidemiologici ci dimostrano annualmente in ambito oncologico italiano – spiega Rossana Berardi, Direttore Clinica Oncologica UNIVPM-AOU Ospedali Riuniti di Ancona -. Nuovi farmaci possono essere un’opportunità se si differenziano, per esempio, per profilo di tossicità e tollerabilità. In questo senso le società internazionali stanno da anni sottolineando quanto sia importante avere dei parametri standardizzati per valutare l’entità del beneficio e altri strumenti quali la tossicità, la qualità della vita, e guardare anche alla sostenibilità del sistema. Forse il Covid ci ha insegnato che dobbiamo muoverci verso un cambio di mentalità. Cambiare mentalità significa fare riferimento all’appropriatezza, come strumento per pianificare e ottimizzare i processi terapeutici, e all’organizzazione a rete”.

L’introduzione di sistemi digitali per migliorare le capacità diagnostiche o per migliorare l’aderenza dei pazienti  ad assumere nuove terapie potrebbe essere estremamente importante se rimborsataAldo Pietro Maggioni, Direttore Centro studi ANMCO -. Forse sarebbe il caso di creare un nuovo silos di costi per le terapie digitali o in generale per l’uso di Digital Health o di Digital therapeutic specificamente, probabilmente è proprio il caso di continuare a fare queste riflessioni per arrivare veramente ad un rimborso per percorso per patologia e non per le singole voci. So che è difficile e complesso e che ne parliamo da tanti anni, ma fino ad oggi mi pare che non ci siano fatto molto in questo senso”.

Il Covid ha dimostrato che nuove tecnologie all’avanguardia possono essere uno strumento di monitoraggio strategico per contenere la pandemia e per risollevare il territorio, che ancora fatica ad essere supportata dalle nuove tecnologie.

Quella dei medici di medicina generale rappresenta una professione raramente e sporadicamente ben organizzata, con attrezzature, personale di studio, tecnologie sanitarie spesso inesistenti, risorse economiche inadeguate, una quantità di compiti, mansioni e prospettive di lavoro che hanno bisogno di anni per essere integrati adeguatamente in uno schema e in strutture professionale pensate a ribasso” spiega Claudio Cricelli, Presidente Nazionale SIMG.

Quello che manca al medico di medicina generale per poter rispondere ai bisogni dei propri assistiti pazienti è un’organizzazione dove anche la specialistica e la diagnostica sono tenute presenti – spiega Gabriella Levato, medico di medicina generale di Milano –. Si parla di microteam ma possiamo anche pensare a formule più evolute dove ci sono gli infermieri, il medico di medicina generale, lo specialista e chi fa diagnostica, perché diventa difficile con un carico di assistiti anche occuparsi di altro, compresa la formazione. E a proposito di questo, prima del Covid i corsi di formazione medicinale in Lombardia sono stati indirizzati per creare all’interno di ogni percorso formativo anche un’esperienza di tipo ecografico o di altro tipo, ma la pandemia ha fermato tutto”.

Regione Lombardia ha predisposto Micro-bio, una rete che interconnette “machine-to-machine” tutti i Lis dei laboratorio di analisi pubblici, oggi circa 25 e a cui questi inviano giornalmente gli esami di microbiologia svolti sugli assistiti in Lombardia sia in regime di ricovero sia in regime ambulatoriale. “Un esempio di applicazione riguarda la sorveglianza delle infezioni correlate all’assistenza negli ospedali attraverso l’invio di segnalazioni complete da tutte le microbiologia accreditate in Lombardia – spiega Simone Schiatti, Responsabile Governo Farmaceutica, protesica e dispositivi ARIA Spa Lombardia –. La rilevazione delle antibiotico resistenze favorisce l’utilizzo delle informazioni a supporto dell’appropriatezza prescrittiva dei medici di medicina generale i quali possono acquisire i dati di resistenza antibiotica dei propri cittadini dal sistema micro-bio ed essere supportati alla corretta prescrizione degli antibiotici più efficaci. E’ noto che alcune infezioni antibiotico-resistenti possono rimanere addormentate e manifestarsi dopo un mese di incubazione in un assistito. Queste occorrenze costituiscono eventi gravi che minano sia la salute dei cittadini sia la disponibilità delle sale operatorie e reparti che possono essere nel tempo compromesse con diffusione dell’infezione e conseguenti costi sociali ed economici.”.

Bisogna essere efficaci e al passo con i tempi perché questa grande innovazione che si è avuta in questi ultimi  anni è ormai alle porte e potrebbe vederci impreparati – spiega Ugo Trama, Direttore Politica del Farmaco e Dispositivi, Regione Campania -. Se non c’è una cabina di regia nazionale che riveda anche l’interlocuzione tra le varie regioni, rischiamo di non rendere disponibili questi grandi progressi che si sono fatti. Penso ad una cabina di regia nazionale forte quando si parla di innovazione perché l’innovazione non è alla portata di tutti, non tutte le regioni possono avere l’expertise per poterla gestire ed è giusto che si sia una condivisione nazionale per rendere in maniera pratica e applicativa quello che arriverà, affinché vengano affrontati in maniera equa le terapie a livello nazionale”.

La tecnologia deve avere una governance precisa – conclude Claudio Zanon, Direttore Scientifico Osservatorio Motore Sanità – ma ricordiamoci sempre che formazione vuol dire competenza, ma la competenza non può essere la giustificazione per non continuare a fare formazione e la formazione non può essere la giustificazione per non cercare la migliore competenza”.

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Pronta la campagna vaccinale contro il Covid, ma per alcuni vaccini si attende ancora l’autorizzazione di EMA

Pronta la campagna vaccinale

12 Dicembre 2020 – L’Italia sta organizzando la campagna vaccinale contro il coronavirus e il fattore tempo è quello sul quale le aziende farmaceutiche stanno combattendo per assicurare in tempi rapidi la distribuzione di vaccini che siano efficaci. Molto dipende dai risultati dei trial e dalla conseguente autorizzazione delle agenzie regolatorie. Al momento l’approvazione dall’Agenzia europea per i medicinali (EMA) è prevista per il 29 dicembre per i vaccini di Pfizer in partnership con BioNTech e per l’11 gennaio per quelli di Moderna, per il vaccino di AstraZeneca l’autorizzazione potrebbe arrivare all’inizio dell’anno. Questo comporta problematiche per la campagna vaccinale italiana.  Questo il focus sulla quale hanno dibattuto gli esperti durante il webinar “I vaccini come risposta alla pandemia Covid-19, organizzato da Mondosanità, in collaborazione con l’Osservatorio di Motore Sanità e grazie al contributo incondizionato di AstraZeneca e IT-MeD.

Cominciamo ad avere a disposizione dei vaccini che appaiono essere efficaci e anche sicuri, l’efficacia stimata varia dal 90 al 95%, alcuni hanno livelli di efficacia relativamente più basse ma naturalmente devono essere ulteriormente valutati e studiati per potere ottenere valori più elevati – spiega Gianni Rezza, Direttore generale della Prevenzione sanitaria del Ministero della Salute -. Abbiamo una disponibilità di vaccini che dipenderà molto dai tempi di autorizzazione delle agenzie regolatorie e di capacità di produzione. Inoltre abbiamo la necessità di considerare delle scale di priorità per la locazione dei vaccini proprio perché il numero di dosi di vaccino aumenterà nel corso del tempo e l’aumento delle dosi sarà molto rapido perché, probabilmente, si renderanno disponibili sempre più vaccini diversi. Solo allora potremmo cominciare a valutare il target di popolazione a seconda de l vaccino specifico che andremo a considerare. La strategia vaccinale è ben definita ma abbiamo bisogno di una certa flessibilità perché potrebbe in parte variare a seconda della necessità di adattarla alle esigenze che possono scaturire dal corso dell’epidemia”.

Sulle tempistiche e il numero di dosi è necessaria una informazione prudente e corretta.

Prevediamo che quando i primi vaccini si rederanno disponibili contiamo che in Europa continentale si rendono disponibili le prime dosi di almeno un vaccino entro la prima metà di gennaio, dipendentemente dalla decisione dell’EMA – prosegue il direttore Rezza -. Quando sarà disponibile il primo vaccino sarà disponibile solo un numero limitato di dosi, e su questo è necessario essere precisi, programmare molto puntualmente la campagna vaccinale e definire le popolazione target che deve essere vaccinata”.

Verranno privilegiate due categorie: gli operatori sanitari e le persone anziane, a partire da quelle istituzionalizzate.

I primi perché sono le persone altamente esposte che devono continuare a mantenere in atto la capacità di risposta da parte del sistema sanitario – prosegue Gianni RezzaDopodiché si prenderanno in esame altre categorie di popolazione come ad esempio alcuni lavoratori essenziali, fino ad arrivare a vaccinare un ampia quota di popolazione. L’obiettivo massimo sarebbe è quello di rendere i nostri ospedali e le residenze sanitarie assistite e residenze assistite delle strutture Covid free e per fare questo c’è bisogno di un’alta adesione alla campagna vaccinale”.

Il Ministero della Salute ha disegnato una campagna “vaccinale protettiva”.

“Possiamo adattarla a seconda di ciò che accade nel corso dell’epidemia che, purtroppo, durerà almeno alcuni mesi quindi dovremmo al tempo stesso mantenere dei comportamenti prudenti anche durante la campagna vaccinale. Sappiamo che per ora il vaccino migliore che abbiamo avuto è stato il distanziamento sociale, la quarantene e tutte le azioni di lockdown che abbiamo intrapreso fin dall’inizio di questa pandemia. In questo momento stiamo organizzando la campagna vaccinale e gli obiettivi sono quella di utilizzare un vaccino che sia sicuro ed efficace, ridurre la trasmissione del virus, la comorbilità e la mortalità correlata alla malattia da Covid, aiutare a minimizzare i problemi che si creano a livello sociale ed economico, la capacità del sistema a mantenere la sua risposta rispetto all’emergenza e assicurare l’equità nell’erogazione dei vaccini”.

Il vaccino di AstraZeneca è in attesa di ricevere l’autorizzazione da parte di EMA.

Se l’EMA dà la sua autorizzazione per i primi giorni di gennaio, da quel giorno, in 24 ore, saremo pronti a  fornire il vaccino – spiega Onofrio Palombella. Con il Commissario Domenico Arcuri abbiamo stimato che dalla seconda metà di gennaio potremmo fornire il primo quantitativo di vaccino e le 40 milioni di dosi che sono attribuite all’Italia, in base al contratto fatto con la Commissione Europea, verranno distribuite mensilmente arrivando al completamento della distribuzione questa estate. In questa fase di emergenza in cui il tempo è una variabile assolutamente dipendente ovviamente si è privilegiata la disponibilità immediata, quindi avremo delle fiale multi-dose già diluite e pronte all’uso. Si tratta di fiale da 10 somministrazioni l’una e gestibili da 2-8 gradi, esattamente come il vaccino dell’influenza. Le fiale per tutta Europa verranno preparate in Italia e poi attraverso la catena di distribuzione della DHL distribuite al l’Hub di Pratica di Mare e da lì verranno distribuiti in quota parte alle Regioni”.

Il vaccino ci preserverà in futuro, ma il tempo ipotizzabile per averlo non sarà prima di un anno-un anno e mezzo.

Per questo dobbiamo pensare al presente, la pandemia è in corso – è il monito di Giovanni Leoni, vicempresidente FnomCeO –. Oggi siamo al secondo posto in Europa per numero di morti per 100.000 abitanti. Siamo molto preoccupati in previsione di una terza ondata che arriverà tra gennaio e febbraio, quindi il grande problema ora è la responsabilizzazione per non dare un ulteriore carico di lavoro agli ospedali, soprattutto nelle terapie intensive e nelle sub-intensive. Spero che dalla carenza di rifornimento delle dosi vaccinali contro l’influenza registrata sul territorio nazionale si tragga un’idea sulla complessità che sarà in futuro la distribuzione della filiera e la trasmissione del vaccino, perché sull’organizzazione della distribuzione e della rendicontazione  di quello che è stato effettuato si gioca la credibilità del sistema sanitario, che deve tenere conto degli operatori pubblici e di tutti gli operatori privati o convenzionati che hanno un impatto sociale e un rapporto di fiducia con il paziente. Siamo di fronte ad una nuova procedura di distribuzione territoriale mondiale che non è mai avvenuta in tempi recenti. Nel piano vaccinale del Ministero della Salute abbiamo visto un’articolazione dei 7 vaccini principali nell’arco di cinque trimestri con la chiusura col primo trimestre del 2012 per un totale di un 1.400 mila operatori sanitari. Ci dovranno essere più punti vaccinali, la collaborazione dei medici di medicina generale e il possibile reclutamento di altri medici per quanto riguarda le vaccinazioni”.

Le Regioni si stanno programmando per garantire che il piano vaccinale anti-Covid sia efficace.

L’organizzazione prevede delle azioni puntuali che riguardano il trattamento dei vaccini, i punti di diluizione e i tempi di erogazione – spiega Walter Locatelli, Commissario straordinario di Alisa di Regione Liguria -. La prima  fase, che prevede la somministrazione dei primi 2 milioni di vaccini, per la regione Liguria sono circa 70mila,  vedrà il personale sanitario dislocato nei vari punti di erogazione negli ospedali e nelle Rsa. Nel concreto stiamo già operando in quanto sono attivi gruppi di lavori interaziendali La seconda fase riguarda la corretta informazione e sarà molto importante, laddove la popolazione più fragile avrà difficoltà ad arrivare in zona, coinvolgere la medicina territoriale. Come sistema regionale farà la differenza poter mettere a disposizione un’organizzazione la più competente possibile, poter discutere e dibattere eventuali dubbi e superarli, accompagnati sempre da una  chiara competenza al fine di cercare le risposte per ogni situazione”.

Intenzioni di essere parte integrante della filiera vaccinale arrivano dal territorio attraverso la proposta di progetti.

Crediamo che sotto la supervisione di un medico possiamo vaccinare anche in farmacia per risolvere un problema  che sarà veramente grosso da gestire: contro l’influenza, pensando di vaccinare tutta la popolazione, 75milioni di persone, per due dosi, fare 130 milioni di somministrazioni nell’arco di pochi mesi sarà certamente un problema da gestire con efficacia” spiega  Giovanni Petrosillo, presidente Federfarma Sunifar.

“Riusciamo a vaccinare in media dai 500 ai 700 pazienti tutti gli anni per l’influenza – aggiunge il dottor Mauro  Ruggeri, responsabile della sede nazionale Società italiana di medicina generale e delle cure primarie (SIMG) -, quindi se volessimo intervenire sui nostri pazienti, e siamo in 43mila medici sul territorio, potremmo essere in grado, in un arco temporale abbastanza ristretto, di poter fare la vaccinazione almeno al 70% dei nostri assisti”.

Di fronte a questo scenario, molte altre domande attendono ancora una risposta:  gli eventuali  effetti collaterali, la durata della copertura dei vari vaccini, il possibile obbligo alla vaccinazione.

Qualsiasi vaccinazione ha effetti collaterali di varia misura, tra i quali anche le reazioni allergiche ma sono estremamente rare – spiega Mauro Pistello, professore di Microbiologia clinica, Dipartimento di Ricerca  Traslazionale dell’Università di Pisa -: da reazioni molto semplici, come il prurito nella zona di inoculo, all’orticaria  diffusa, alle reazioni sistemiche. La frequenza delle reazioni allergiche gravi, fra le quali le più severe includono  lo shock anafilattico, sono estremamente rare. Se un soggetto sa di essere a rischio di poter sviluppare una reazione allergica, probabilmente dovrà essere vaccinato in un contesto in cui possa essere presa in considerazione l’ipotesi del trattamento della reazione allergica”.

“Dobbiamo mantenere l’aspetto di sfiducia verso i nostri assistiti – prosegue il dottor Ruggeri – attraverso una comunicazione corretta. Abbiamo una esperienza sufficiente per poter attivare anche un counseling vaccinale rivolto ai nostri assisti”.

Siamo di fronte a una pandemia globale e la vedo dura la non obbligatorietà del vaccino – afferma Leoni – in particolare per quel che riguarda chi svolge un lavoro sociale a contatto con il pubblico. Abbiamo la necessità  di avere vaccinati tutti i soggetti sanitari che hanno stretto rapporto con il paziente e ci metto dentro anche gli odontoiatriche che sono quasi 50 mila e lavoro da 45 centimetri dalla bocca del paziente”.

Se un obbligo vaccinale ci deve essere che sia un obbligo che arrivi da una legge emanata in conformità alla Costituzione e all’iter previsto dalla nostra Costituzione, approvata dal Parlamento – spiega l’avvocato Elena  Lomazzi dello studio legale A&A – perché se così non fosse il rischio è che ci si trovi di fronte ad un  provvedimento molto debole, non costituzionale e questo andrebbe ovviamente a creare incertezza ancora più incertezza in un periodo in cui purtroppo i punti interrogativi sono molti”.

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