Covid 19 e cervello: sintomi, complicanze e ripercussioni sulla gestione delle malattie neurologiche

Covid-19 e cervello

Lo studio multicentrico NeuroCOVID della Società Italiana di Neurologia sta raccogliendo informazioni sui pazienti che sono o sono stati affetti da Covid-19 per valutare possibili implicazioni a lungo termine sul cervello ed il sistema nervoso

23 Dicembre 2020 – Il Covid 19, come può colpire organi come polmoni, cuore, rene, può anche colpire il cervello e con due implicazioni nelle malattie neurologiche, manifestazioni neurologiche direttamente indotte dall’infezione e grosse ripercussioni sulla gestione delle malattie neurologiche legate all’emergenza come dimostra uno studio recentemente pubblicato che ha evidenziato gli effetti comportamentali e psicologici della quarantena nei pazienti con demenza: peggioramento di sintomi comportamentali e psicologici della demenza come apatia (34,5%), depressione (25%), ansia (29%), disturbi del sonno (24%), irritabilità (40,2%), agitazione (30,7%) e un nuovo inizio di sintomi comportamentali e psicologici della demenza quali disturbi del sonno (21,3%), irritabilità (20,6%), apatia ( 17%) e aggressività (13%).

E’ quanto è emerso durante il webinar “Organopatia da Covid-19. Diagnosi, terapia e follow up” organizzato da  Motore Sanità.

Sono molteplici i quadri neurologici che possono insorgere nelle varie fasi dell’infezione: sintomi a livello del sistema nervoso centrale come cefalea, vertigini, disturbi dello stato di coscienza (confusione, delirium, fino al coma), encefaliti da infezione diretta del virus o su base autoimmune, manifestazioni epilettiche, disturbi motori e sensitivi, spesso legati a ictus ischemici o emorragici; sintomi a livello del sistema nervoso periferico come la perdita o distorsione del senso dell’olfatto, del gusto, sofferenza diretta o su base immuno-mediata dei nervi periferici (neuralgie, sindrome di Guillan-Barrè), nonché sintomi da danno muscolare scheletrico, che si manifestano con mialgie intense, spesso correlate a rialzo di enzimi liberati dal muscolo (CPK), espressione di danno muscolare diretto.

Ma, come è stato segnalato per altri organi, si possono manifestare complicanze neurologiche post Covid: in circa il 30% dei soggetti trattati presso gli ambulatori post Covid, oltre ad astenia, che è il sintomo più comune, si è osservata difficoltà di concentrazione o veri e propri disturbi di memoria, e ora i neurologi stanno cercando di documentare quali sono le aree cerebrali che posso maggiormente essere colpite, con valutazioni neuropsicologiche o con la risonanza o con esami di imaging.

Si possono inoltre manifestare patologie neurologiche legate ad alterazioni delle pareti vasali, alterazioni della coagulazione, liberazione delle citochine pro-infiammatorie, infiammazione della parete dei vasi e la produzione di autoanticorpi.

Proprio per il rischio importante di complicanze durante l’infezione e di conseguenze anche dopo l’infezione, la Società Italiana di Neurologia (SIN) ha promosso lo studio multicentrico NeuroCOVID sulle manifestazioni neurologiche durante l’infezione con l’obiettivo di raccogliere informazioni sui pazienti che sono o sono stati affetti da Covid-19 relative alla specifica sintomatologia clinica neurologica manifestata, ad esami eventualmente eseguiti per evidenziare un interessamento del cervello e sul decorso della sintomatologia allo scopo di valutare possibili implicazioni a lungo termine sul sistema nervoso.

Lo studio è partito a marzo con l’esplosione della pandemia e il reclutamento si protrarrà fino al giugno 2021 con un follow-up che dovrebbe protrarsi fino alla fine dell’anno prossimo. Allo studio hanno già aderito 48 unità di neurologia nel territorio italiano e altre stanno chiedendo l’adesione.

Si osserva un legame della proteina Spike del virus ai recettori ACE2 e Neuropilina1, presenti sia in cellule epiteliali, che vascolari, che nervose – ha spiegato il Professor Carlo Ferrarese, Direttore del Centro di Neuroscienze di Milano, Università di Milano Bicocca e Direttore della Clinica Neurologica, Ospedale San Gerardo di Monza -. L’ingresso del virus al cervello può essere ematogena ma soprattutto guidato dal nervo olfattorio e dal nervo vago, che innerva polmoni e l’intestino, e giunto al cervello può rapidamente diffondersi tra le varie cellule nervose, negli astrociti, e negli studi autoptici che sono stati fatti in soggetti deceduti con infezione, è stato osservato proprio il virus nelle cellule cerebrali”.

Le patologie che vengono osservate, come ad esempio le encefaliti, hanno spesso una base autoimmune. “In alcuni casi – ha proseguito il Ferraresesono legate al danno del virus, ma in molti casi si sono risolte con massicce dosi di steroidi seguite da plasmaferesi oppure da somministrazione di immunoglobuline, come accade nella malattia di Guillan-Barrè, i cui casi si manifestano a volte già all’esordio della sintomatologia Covid, a volte a distanza di tempo, quindi è come se la risposta immunitaria favorisse proprio queste patologie sia a livello del sistema nervoso centrale che periferico”.

A tale proposito “l’esercizio di per sé ha un effetto terapeutico perché ha effetti di neuromodulazione e di modulazione anche della risposta immunitaria in funzione dell’intensità di esercizio – spiega Franco Molteni, Direttore UOC Recupero e Riabilitazione Funzionale Villa Beretta Costa Masnaga -. Altro elemento da non sottovalutare in questi pazienti è la risposta del sistema vegetativo all’esercizio che è spesso alterata e che probabilmente è implicata nella sindrome da fatica cronica che stiamo osservando in questi pazienti. Questi due elementi andrebbero visti in modo molto approfonditi nel lungo periodo”.

Infine, la pandemia ha avuto una enorme ripercussione sulla gestione delle malattie neurologiche. “La chiusura degli ambulatori, soprattutto nella prima fase, la difficoltà stessa di pazienti che hanno avuto ansia a recarsi al pronto soccorso per le loro patologie e quindi non sono stati seguiti, e lo stesso lockdown che ha costretto a casa pazienti con la demenza hanno fatto registrare un netto peggioramento del quadro dei disturbi comportamentali o addirittura la comparsa di nuovi disturbi comportamentali in soggetti affetti da demenza, come testimonia uno studio recentemente pubblicato – ha concluso il Professor Ferrarese -. Stiamo cercando di attrezzarci con la telemedicina, con collegamenti via internet e telefonici, seppur non è la stessa cosa che seguire direttamente questi pazienti. Le patologie neurologiche hanno avuto un grosso impatto da questa pandemia, stiamo cercando di monitorarle e vedremo anche a distanza di tempo quale sarà lo scenario”.

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ORGANOPATIA DA SARS COV-2

organopatia

Consapevolezza clinica delle patologie derivanti, a partire da diagnosi precoce, terapia rapida e follow-up

22 dicembre 2020 – È ormai appurato che il virus da SARS COV-2 non aggredisce solo i polmoni portando ad un’insufficienza respiratoria spesso mortale, ma attacca praticamente tutti gli organi causando in alcuni deficit che permangono a lungo e con conseguenze importanti. È il caso dei cosiddetti long-haulers, cioè persone che dopo un’infezione iniziale spesso moderata e curata a domicilio, non riescono a guarire completamente, perché il virus persiste in piccole quantità in alcuni organi del corpo, dando origine non a una tempesta citochimica ma ad una pioggia citochimica con infiammazione permanente e se si giunge ad immunodepressione anche alla riattivazione della malattia con aggravamento importante. Per approfondire al meglio il tema, MOTORE SANITÀ ha organizzato il webinar ‘Organopatia da Covid-19: diagnosi, terapia e follow-up’.

Come affermato dagli esperti, in primis dal Prof. Fauci, il Coronavirus colpisce non solo le vie aree ma talora si diffonde a tutti gli organi con conseguenze che si prolungano a lungo. Sintomi come la fatica, dolori muscolari ed ossei, dispnea, diarrea e sintomi cardiaci e neurologici sono presenti soprattutto nei pazienti con alta carica virale o sottoposti a terapie ad alta intensità per vincere il contagio da SARS COV-2. In alcuni pazienti, come riportato in letteratura, il virus si occulta in alcuni organi non scatenando una tempesta citochinica ma una pioggia citochinica con uno stato infiammatorio permanente che talora riattiva la malattia prima superata a domicilio con necessità di ricovero in ospedale. D qui la necessità di analizzare le conseguenze del contagio in termini epidemiologici e assistenziali per indurre i centri e le regioni a programmare un follow up di  questi pazienti per capirne la prevalenza e l’impatto in termini di salute e sociali”, ha dichiarato Claudio Zanon, Direttore Scientifico Osservatorio Motore Sanità

“Elevazione degli enzimi epatici sono comuni in corso di COVID-19, potendo essere riscontratifino al 76% dei casi. Elevati livelli di alanina aminotransferasi (ALT) e soprattutto di aspartato aminotransferasi (AST) sono le anomalie più comuni, anche se solo nei pazienti più gravi si osservano valori maggiori di 3 volte quelli normali; incremento dei livelli di γ-glutamil transferasi (GGT) possono essere riscontrati fino al 50% e della bilirubina nel 10% dei casi. La fosfatasi alcalina (ALP) è tipicamente normale nonostante il recettore ACE2 sia espresso sul 58% delle cellule dei dotti biliari. L’insufficienza epatica acuta su cronica (ACLF) segnalata già per il virus dell’influenza, è stata anche riportato nel 12% e nel 28% dei pazienti con cirrosi compensata con incremento della mortalità. I meccanismi con cui SARS-CoV-2 colpisce il fegato non sono ben definiti. Il recettore ACE2 è espresso solo nel 2,6% degli epatociti e un effetto citopatico diretto, descritto per i virus della SARS e della MERS non è stato documentato per SARS-CoV-2 anche se ci sono riscontri aneddotici alla microscopia elettronica della tipica struttura spike nel citoplasma degli epatociti. Secondo la World Gastroenterology Organization (WGO) le procedure interventistiche come l’endoscopia e la colangiopancreatografia retrograda endoscopica dovrebbero essere eseguite solo in casi di emergenza o quando sono considerate strettamente necessarie come in varici ad alto rischio o colangite. La sorveglianza del cancro epatocellulare potrebbe essere posticipata di 2 o 3 mesi. Il trapianto di fegato dovrebbe essere limitato ai pazienti con punteggi MELD elevati, insufficienza epatica acuta ed epatocellulare cancro entro i criteri di Milano. Donatori e riceventi dovrebbero essere testati per SARS-CoV-2 e se trovato positivo il donatore dovrebbe essere escluso e il trapianto di fegato posticipato fino alla guarigione dall’infezione”, ha spiegato Antonio Cascio, Direttore Unità Operativa Malattie Infettive Policlinico P. Giaccone, Palermo

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Rivoluzione CAR-T in Emilia-Romagna

Rivoluzione CAR

Al Policlinico Sant’Orsola-Malpighi l’anno si chiuderà con 20 pazienti oncologici trattati. Il Covid non ferma l’attività.

Tra le sfide future il potenziamento delle CAR-T cell Team

Le CAR-T sono cure all’avanguardia, che possono dare una speranza in più ai pazienti oncologici. Cure che, per la complessità che richiedono, devono essere organizzate da centri selezionati e di altissima competenza. Queste CAR-T innovative sono arrivate in Regione Emilia Romagna nel 2019 dopo l’approvazione dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) e la Regione da subito ha messo a disposizione l’esperienza, la qualità e la professionalità del Policlinico Sant’Orsola-Malpighi – Unità Operativa Complessa di Ematologia per eseguire queste immunoterapie cellulari, che possono dare risposte di lunga durata, in alcuni casi anche la guarigione, in pazienti nei quali la malattia non è più curabile con le terapie convenzionali.

Motore Sanità ha organizzato, in Emilia-Romagna, il Webinar ‘BEST PRACTICE ORGANIZZATIVE IN TEMPO DI COVID: IL PERCORSO DEL PAZIENTE SOTTOPOSTO A CAR-T’, realizzato grazie al contributo incondizionato di GILEAD e Kite.

Il Policlinico Sant’Orsola-Malpighi è il centro Hub per l’Emilia-Romagna nell’utilizzo delle terapie avanzate CAR-T. È uno dei primi centri italiani che sono stati selezionati per condurre studi clinici sperimentali per le indicazioni approvate e per quelle future (mieloma multiplo). L’AIFA già dallo scorso settembre ha approvato i criteri per l’individuazione dei centri ospedalieri idonei alla somministrazione di queste terapie, non più in modalità sperimentale ma ordinaria. In base all’evoluzione delle cure e della numerosità dei pazienti da trattare, la Giunta regionale valuterà successivamente l’eventuale individuazione di altri centri regionali abilitati all’utilizzo delle terapie CAR-T.  L’anno 2020 si chiuderà con un totale di 20 pazienti a cui CAR-T sono state infuse (alcuni da studio clinico). Durante la prima ondata della pandemia si è registrato purtroppo un rallentamento negli arruolamenti; ma da settembre sono state schedulate 3 aferesi al mese, dal secondo trimestre 2021 saranno 4 al mese, andando a coprire i fabbisogni previsti dalla programmazione regionale. Tra le sfide future: fondamentale è il potenziamento delle CAR-T cell Team nell’organizzazione all’interno del centro Hub.

Il modello di base è quello dell’organizzazione a rete. Con la delibera è stato assegnato al centro Hub l’obiettivo di definire un protocollo di selezione e presa in carico dei pazienti candidati alle terapie avanzate ed è stata istituita un’apposita Commissione di esperti, con il compito di valutare la casistica e la qualità del percorso delle procedure CAR-T eseguite, anche per l’assunzione di eventuali provvedimenti aggiuntivi, nonché di definire la gestione dei tempi di attesa sia per i pazienti residenti in Regione sia per i pazienti provenienti da altre regioni (con il supporto prezioso di Casa Ail). Il processo è facilitato da uno strumento gestionale di tipo informatico che ha collegato i centri Spoke, otto sedi ematologiche in totale sul territorio regionale, al centro Hub, rendendo questa attività possibile online in ogni momento al fine di condividere l’eleggibilità al trattamento.

Per il paziente è stato creato un vero e proprio percorso: presa in carico e responsabilità, comunicazione delle interfacce, ambiti applicativi e standard of care, identificazione degli steps a maggior rischio, controllo (verifica) del processo.

Durante la pandemia è stato istituito un percorso ad hoc Covid-free per i pazienti sottoposti a terapia CAR-T. Il Covid ha influenzato certamente l’attività delle CAR-T ma ha permesso di costruire lo scheletro dell’organizzazione regionale che permetterà anche a regime di rispondere in maniera esaustiva alla domanda regionale e anche extra regionale. La Regione Emilia Romagna, dall’inizio della fase 1, ha individuato delle indicazioni per la gestione delle terapie e dei trapianti indifferibili nei pazienti ematologici. Insieme alla comunità professionale, a metà marzo, sono state emesse indicazioni per garantire la conservazione dei trattamenti trapiantologici come salvavita, sia autologi sia allogenici e anche di CAR-T, ritenuti indifferibili, in relazione ad una valutazione del rapporto rischio-beneficio, e anche degli elementi correlati all’immunodepressione. Questa condivisione di indicazioni ha permesso di arrivare ad approcciare il tema dei trapianti e delle CAR-T in maniera condivisa e omogenea anche nelle fasi successive.

Se i CAR-T diventeranno, come speriamo, una risorsa terapeutica in grado di cambiare  radicalmente la storia di quei pazienti che attualmente non hanno alternative terapeutiche, probabilmente solo il Policlinico Sant’Orsola-Malpighi potrebbe non essere sufficiente a soddisfare i bisogni dell’intera regione e quindi potremmo essere un secondo centro se ce ne sarà bisogno. Questo lo valuteremo nel tempo insieme al centro e alla Regione” ha spiegato Giuseppe Longo, Direttore SC Medicina Oncologica Azienda Ospedaliero-Universitaria Policlinico di Modena e Coordinatore clinico Gruppo Regionale Farmaci Oncologici di Regione Emilia-Romagna.

“A volte ci troviamo di fronte a scelte difficili e a situazioni mai viste prima – ha concluso  Francesca Bonifazi, Dirigente Ematologia Policlinico S. Orsola Malpighi – Istituto di Ematologia L. e A. Seragnoli Bologna – ma certamente la collaborazione con gli altri colleghi e poi l’intuito clinico, la continua ricerca scientifica e le relazioni umane sono fondamentali per affrontare questa grande e nuova sfida”.

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Il diabete non può aspettare

Il diabete

Esperti a confronto: “Usare al meglio le tecnologie e rafforzare il rapporto ospedale-territorio e medici famiglie, per una migliore presa in carico del piccolo paziente”

18 Dicembre 2020 – La diabetologia pediatrica ha compiuto in questi anni passi giganteschi nell’approccio e nella gestione del paziente: tecnologia online, seppur adottate a macchia di leopardo (dal teleconsulto alla televisita) a supporto dell’assistenza, e nuove formulazioni terapeutiche e nuovi strumenti di gestione (infusori per la somministrazione continua di insulina e sensori per il monitoraggio continuo della glicemia) che consentono oggi di ottimizzare queste due operazioni e di offrire un controllo del diabete sempre più efficace.

Ma la diagnosi tempestiva resta l’arma più importante per affrontare le diverse forme del diabete. Come il diabete di tipo 1, in lenta ma continua crescita, che oggi interessa maggiormente la fascia dell’età prescolare e necessita della somministrazione di insulina più volte al giorno e di un controllo costante della glicemia. Registra una incidenza di circa 8 bambini su 100 mila con maggiore frequenza nelle bambine (rapporto di 1 a 5).

Secondo i dati emersi dall’incontro webinar “Crescere con il diabete. Bambini, ragazzi e giovani adulti: dalla scoperta alla gestione del percorso assistenziale”, organizzato da Diabete Italia Onlus e Mondosanità e con il contributo incondizionato di SANOFI, circa 1.700 pazienti (7-10%) che ogni anno vengono diagnosticati con diabete in età pediatrica arrivano da popolazioni in via di sviluppo e questo comporta dei grossi problemi di accesso in ospedale e di colloquio e rapporto con il medico. Inoltre ancora oggi circa il 30% dei bambini arrivano con una situazione di chetoacidosi, un’emergenza medica che se non prontamente diagnosticata e trattata in modo adeguato è purtroppo tutt’ora causa di mortalità.

Gli esperti si appellano affinché vengano impiegate al meglio le tecnologie e perché venga rafforzato il rapporto ospedale-territorio e medici-famiglie, per una migliore presa in carico del piccolo paziente.

La diagnosi precoce è sicuramente importante per prevenire complicanze come la chetoacidosi diabetica.

I dati nazionali stimano una percentuale che va dal 30% al 40%, in Europa ci sono valori più bassi nei paesi dove l’incidenza di diabete è più alta, come la Finlandia in cui tutti conoscono meglio il diabete, mentre purtroppo ci sono valori peggiori nelle nazioni in cui il sistema sanitario e meno efficace – ha spiegato Stefano Zucchini, Dirigente Medico Policlinico Sant’Orsola-Malpighi Bologna -. Durante la pandemia in cui i pazienti avevano paura a venire in ospedale abbiamo avuto purtroppo a Bologna 30 nuove diagnosi di cui 10 in chetoacidodi, che abbiamo ben curato e gestito, seppur con qualche ora di ritardo, grazie al network tra i pediatri che hanno utilizzato video o telefonate”.

Chi ha un buon controllo della malattia soprattutto nei primi cinque anni rischia meno dal punto di vista cardiovascolare nel futuro. “Da uno studio coordinato dal gruppo del professor Claudio Maffeis dell’Università degli studi di Verona e condotto su 2.000 pazienti sul rischio di obesità, ipertensione ed ipercolesterolemia, abbiamo scoperto che il 30% di loro presentava almeno già un fattore di rischio, e proprio su questi aspetti bisogna che i nostri centri siano preparati ad essere proattivi – ha spiegato Barbara Predieri, Professore Associato, Dipartimento Scienze Mediche e Chirurgiche Materno-Infantili e Adulto Università Unimore Modena e Reggio Emilia –. Il diabete è una malattia cronica, non è guaribile e la speranza dei pazienti e delle associazioni è che presto possa arrivare una cura, ma è ben curabile quindi è importantissimo al termine del ricovero per esordio seguire regolarmente i nostri bambini e i nostri adolescenti. In questo contesto è importante avere  a livello nazionale e regionale dei Pdta specifici che ci indicano anche come procedere e come seguire questi ragazzi”.

E’ cambiata drasticamente la gestione della terapia nel bambino, in particolare con lo sviluppo dei nuovi farmaci, sia tutti gli analoghi dell’insulina e di recente anche l’immissione in commercio del glucagone in somministrazione nasale che ha risolto la paura dell’ipoglicemia che condizionava molto spesso la vita dei genitori soprattutto durante le fasi notturne, e soprattutto con lo sviluppo della tecnologia (sensori e microninfusori) che ormai ci ha portato ad avere quasi a disposizione di ogni singola famiglia una sorta di piccolo pancreas artificiale – ha spiegato Franco Cerutti, Direttore S.C Endocrinologia e Diabetologia, Primario di Pediatria, Diabetologia e Malattie del ricambio, Ospedale Infantile Regina Margherita, Torino e Professore Associato di Pediatria, Università degli Studi, Torino -. Questo condiziona un miglior compenso, una facilitazione del monitoraggio glicemico in modo continuo anche in remoto offrendoci la possibilità di seguire il bambino anche quando va a scuola, con un effetto positivo sulla qualità della vita dei genitori, su quella del bambino forse sarebbe interessante fare qualche studio in più. Queste novità hanno una forte richiesta di utilizzo ma ancora rimangono aperte alcune questioni legate al costo elevato degli strumenti, la necessità di personalizzare la loro scelta e personalizzarne la gestione, anche perché questi strumenti hanno un costo e come medici dobbiamo essere responsabili dell’appropriatezza, dell’accettabilità e soprattutto della sostenibilità nel tempo”.

La comunicazione tra medico e genitori ha un ruolo importante. “Il primo problema che una famiglia  necessita di risolvere dopo l’accertamento di un esordio di diabete è l’istruzione e la formazione sulla malattia, affinché possa tornare a casa con la consapevolezza di saperla gestire in quanto il diabete è una malattia che deve essere autogestita – spiega il professor Fabiano Marra, Vice Presidente AGD -. Quindi i genitori devono essere formati su come devono mangiare i propri figli, sulla corretta gestione della glicemia, come devono modulare la somministrazione dell’insulina rispetto all’attività dei propri figli e poi devono ricevere supporto psicologico. Questa malattia stravolge la vita sia dei piccolo paziente sia della famiglia”.

Non sempre e ovunque c’è una facilità di comunicazione tra i centri di riferimento regionali e il territorio. “Su questo stiamo tendando di lavorare da tempo e il fatto anche che le associazioni spesso creino un legame aiuta – ha spiegato Michele Mencacci, Vice Segretario Regionale Umbria Federazione Italiana Medici Pediatri (FIMP) -. Credo che la nostra cooperazione possa avere anche in futuro, e sempre di più mi auguro, quel ruolo di vera integrazione territorio-ospedale e ospedale-territorio. La sorveglianza di tutti gli aspetti legati alla qualità della vita del bambino, del suo inserimento scolastico e legati alla sua salute psicofisica in generale, anche con il sostegno delle figure di riferimento degli psicologi e attraverso dei monitoraggi, che credo debbano essere più qualificati, come per esempio il questionario sulla qualità di vita, sono aspetti sui quali possiamo essere di aiuto e che potrebbero dare una mano anche agli specialisti di riferimento, che garantiscono la massima qualità delle cure e la massima tecnologia attuale disponibile”.

E la telemedicina è di grande supporto, laddove è presente. “Sono convinto che la telemedicina ha dato un grosso passo in avanti alla gestione della malattia anche se sicuramente avere un rapporto diretto con il paziente è nettamente meglio. La telemedicina infatti non si deve fermare solo esclusivamente alla messaggino per email o per whatsApp – ha spiegato Fortunato Lombardo, Professore Associato Pediatria UOC Clinica Pediatrica Policlinico, Università di Messina –. Durante la pandemia a noi diabetologi pediatri è servita tantissimo ed è utile tutt’ora, perché senza la telemedicina e soprattutto la possibilità di vedere gli andamenti delle glicemie dei nostri pazienti non siamo riusciti ad arrivare dove veramente siamo arrivati”.

“Stiamo utilizzando tutti gli strumenti a disposizione per fare in modo che i nostri piccoli ammalati tornino a vivere al meglio la loro vita e per questo l’appello è a chi gli strumenti li ha di metterli a disposizione: non perdiamo di vista l’importanza di continuare a seguire anche a distanza i nostri bambini che sono diventati giovani adulti e che dovranno avere una vecchiaia il più possibile serena” ha spiegato Pietro Buono, Direttore Attività Consultoriali e Assistenza Materno Infantile Referente Telemedicina della Regione Campania -. Durante la pandemia abbiamo attivato il sistema di televisita che pediatri di libera scelta e medici di medicina general possono richiedere ai due centri di riferimento attraverso una ricetta dematerializzata”.

Una delle cose importanti che si è realizzato grazie a questo lungo percorso con Motore Sanità e Diabete Italia – ha concluso Rita Lidia Stara, Presidente Fe.D.ER Federazione Diabete Emilia-Romagna – è che si è discusso spesso di diabete pediatrico affrontando quelle tematiche che anche durante la giornata mondiale del diabete spesso vengono schiacciate dalle tematiche del diabete dell’adulto. E’ un grande risultato e porteremo avanti questo bellissimo e virtuoso progetto”.

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Tumori neuroendocrini: “Teragnostica la nuova arma a difesa dei pazienti”

Tumori neuroendocrini

In Italia, i tumori neuroendocrini registrano 4/5 nuovi casi ogni 100.000 persone, ma i pazienti vengono diagnosticati in fase avanzata e ci convivono per molti anni.

Puglia, 17 dicembre 2020 – Approccio multidisciplinare, accesso uniforme alle terapie innovative e loro uso appropriato e personalizzato alle caratteristiche del paziente, per stabilire la necessità per le strutture ospedaliere e per il servizio sanitario regionale di introdurre la teragnostica nella pratica clinica.

Questo l’obiettivo del webinar “TERAGNOSTICA SFIDE DI OGGI E PROSPETTIVE FUTURE”, organizzato da MOTORE SANITÀ grazie al contributo incondizionato di Advanced Accelerator Applications, che ha visto la partecipazione dei massimi esperti del panorama sanitario italiano. Questo approccio permette, sin dalla fase diagnostica, di migliorare la stadiazione della patologia, selezionare i pazienti non risponder, definire le terapie successive ed il follow-up. I recenti progressi della ricerca hanno portato all’approvazione della prima terapia radio recettoriale per la presa in carico dei pazienti affetti da tumori neuroendocrini.

 

“I tumori neuroendocrini costituiscono un gruppo eterogeneo di neoplasie che interessano numerosi organi e apparati, e fra essi primariamente il tratto gastroenteropancreatico e quello broncopolmonare. Un tempo considerati rari, i tumori neuroendocrini costituiscono oggi la seconda neoplasia del tratto digerente in termini di prevalenza. Il panorama terapeutico di questi tumori si è notevolmente ampliato nell’arco delle ultime due decadi, con il riconoscimento dell’attività antitumorale e anti secretoria degli analoghi della somatostatina, la dimostrazione dell’efficacia degli agenti biologici everolimus e sunitinib, la conferma dell’attività della chemioterapia in precisi subsets di malattia. Recenti evidenze di ricerca clinica hanno inoltre dimostrato come la terapia con analoghi “caldi” della somatostatina, ovvero analoghi radio marcati con il radionuclide Lutezio 177, fornisca risultati senza precedenti nel trattamento di pazienti affetti da tumori neuroendocrini del tratto gastroenteropancreatico, determinando un significativo beneficio in termini di sopravvivenza. La disponibilità di metodiche di imaging in grado di caratterizzare l’espressione dei recettori della somatostatina (ovvero il bersaglio di questi analoghi radio marcati) sulla superficie delle cellule tumorali consente inoltre la preselezione dei pazienti da arruolare a questa forma di trattamento, in un’ottica di medicina di precisione. Uno degli elementi chiave per il successo di questa forma di terapia è chiaramente rappresentato dalla sinergia fra specialisti con competenze diverse, e un network multidisciplinare è attualmente in fase avanzata di implementazione nell’ambito del territorio regionale pugliese”, ha spiegato Mauro Cives, Ricercatore Dipartimento Scienze Biomediche ed Oncologia Umana, Università degli Studi di Bari

 

“Il termine TERAGNOSTICA è stato coniato in medicina nucleare molti anni fa; infatti, quando questo termine ancora non esisteva, la prima sostanza utilizzata (e lo è ancora oggi) per la diagnosi e la cura del tumore della tiroide è stato l’isotopo 131 dello iodio (Terapia radio metabolica del carcinoma tiroideo differenziato). Questa rinnovata disciplina, la TERAGNOSTICA, include in realtà numerose altre sostanze che sia da sole sia in coppie possono essere utilizzate per questo scopo (molecole marcate con isotopi gamma o positrone emittenti per la diagnostica possono essere marcate anche con isotopi alfa o beta- per la terapia). Queste sostanze (radiofarmaci) si legano su recettori presenti nel bersaglio da trattare o sostanze, come lo iodio, che sono internalizzate dal bersaglio tramite processi metabolici. Pertanto, mediante questi meccanismi è possibile sia localizzare con precisione i tessuti patologici (mediante l’imaging diagnostico) sia distruggerli con dosi elevate e mirate di radiazioni”, ha detto Giammarco Surico, Coordinatore Rete Oncologica ROP Regione Puglia

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Nuove terapie, diagnosi tempestiva e efficienti percorsi di cura per combattere il diabete giovanile

Nuove terapie

17 dicembre 2020 – In Italia il diabete di tipo 1 (DT1) ha un’incidenza di circa 8 bambini su 100.000,

con maggior frequenza nelle femmine (rapporto di 1 a 5) e necessita della somministrazione di

insulina più volte al giorno e di costante controllo della glicemia. Nuove terapie e strumenti

(infusori per la somministrazione continua d’insulina e sensori per il monitoraggio continuo

della glicemia) consentono di ottimizzare queste due operazioni, ma resta fondamentale la diagnosi

precoce. È indispensabile che i genitori si rivolgano al pediatra o al medico di base, già ai primi

sintomi della malattia, come aumento della quantità di urine e frequenza delle minzioni (Poliuria),

sete eccessiva con aumento dell’assunzione di liquidi (Polidipsia), fame smisurata con aumento

dell’assunzione di cibo (Polifagia) e dimagrimento. Così, semplicissimi esami consentiranno

rapidamente di escludere o confermare il sospetto di diabete e poterlo trattare con tempestività.

Una buona comunicazione tra pediatri, medici di base e centri specialistici, unita ad una

organizzazione dei percorsi efficiente consente un’ottimale presa in carico che limiti i danni di

questa importante malattia cronica. Con lo scopo di approfondire gli aspetti di innovazione utili ad

implementare gli attuali percorsi di cura, Diabete Italia Onlus e Mondosanità hanno organizzato

il webinar “CRESCERE CON IL DIABETE. Bambini, ragazzi e giovani adulti: dalla scoperta alla

gestione del percorso assistenziale”, realizzato grazie al contributo incondizionato di SANOFI.

“Il muro concettuale secondo il quale il diabete in età pediatrica ha preferibilmente una patogenesi

autoimmune e quello dell’adulto una eziologia di tipo diverso, sta ormai definitivamente crollando. Il

diabete mellito in età infantile non sembra essere così ‘monotematico’ come si credeva che fosse.

Infatti, fino a qualche decennio fa, in Pediatria vigeva l’assioma che in caso di iperglicemia persistente

in età pediatrica, specialmente in presenza di chetoacidosi, l’unica diagnosi possibile fosse quella di

‘diabete mellito tipo 1’ e l’unica terapia ammessa fosse la somministrazione di insulina per tutta la vita.

Oggi, invece, da un lato ci sono stati molti progressi scientifici per capire la patogenesi e la eziologia

delle forme di diabete non autoimmuni, non sempre insulino-trattate, dall’altra, inoltre, l’aumento della

prevalenza della obesità infantile ha fatto anticipare drammaticamente la comparsa del diabete tipo 2,

forma che sembrava essere solo appannaggio delle persone anziane, fino a farlo comparire addirittura

in età adolescenziale. Il congresso, organizzato da Diabete Italia, è, quindi, come al solito particolarmente

sul pezzo in questo momento perché è importante che si faccia un’opera di informazione affinché tutti i

bambini possano praticare all’esordio del diabete il dosaggio degli anticorpi (GAD, IA2,IAA e ZnT8) e,

nel caso fossero negativi, permettere loro di praticare tutti gli approfondimenti utili, compresi quelli genetici,

per capire la eziologia della patologia in modo da scegliere una terapia che sia quanto più è possibile mirata

e ‘sartoriale’”, ha spiegato Dario Iafusco, Responsabile Centro Regionale Diabetologia Pediatrica

“G. Stoppoloni” AOU “Luigi Vanvitelli”, Napoli. Vicepresidente Diabete Italia

“I Pediatri di famiglia hanno un ruolo importante nella diagnosi precoce e nella prevenzione della

chetoacidosi per quanto attiene all’esordio, per il diabete tipo 1. Mentre per il tipo 2, la nostra conoscenza

dei bambini fin dalla nascita, delle loro famiglie, ed i bilanci di salute, possono rappresentare un punto di

osservazione privilegiato nel sospetto di una insulino-resistenza. Dopo l’esordio, la Pediatria del territorio

ha il dovere di sorvegliare il regolare sviluppo psicofisico del bambino, a maggior ragione in occasione di

patologia cronica, verificando, in continuità con i Colleghi dei centri di riferimento, l’adesione ai PDTA, il

corretto inserimento in ambiente scolastico e sorvegliando sulla qualità di vita del bambino e della sua

famiglia. Tutto questo unitamente alla nostra presenza costante nei confronti dei genitori per aiutarli

anche in occasione delle patologie intercorrenti, in modo da inserire il piccolo paziente e tutti i suoi 

caregiver all’interno di un sistema di cure che abbia proprio il bambino come fulcro”, ha detto Michele

Mencacci, Vice Segretario Regionale Umbria FIMP

 

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Farmaci equivalenti ancora poco utilizzati in Italia: le resistenze del mercato e la diffidenza dei cittadini

Farmaci equivalenti

Gli esperti: «Serve più informazione sui farmaci equivalenti tra medici, farmacisti e pazienti» 16 Dicembre 2020 – L’uso del farmaco equivalente in Italia è ancora basso, pari al 39,6%, rispetto ad altri paesi come Gran Bretagna (53,2%), Germania (45,7%), Francia (45,5%), Spagna (42,3%) e anche rispetto ai farmaci di marca. Nel 2019, l’83,7% di farmaci utilizzati dal sistema sanitario italiano nella farmaceutica convenzionata sono equivalenti, di cui il 53% sono farmaci a brevetto scaduto generici branded e il 30,6% equivalenti. La diffidenza che ferma il mercato italiano all’utilizzo dei farmaci equivalenti ha una duplice natura economica: più è alta la quota di generici puri maggiore è la riduzione di prezzo successiva e più è forte la concorrenza nella riduzione del prezzo (e AIFA rimborserà il prezzo di riferimento che è il generico meno caro); la compartecipazione alla spesa sostenuta dai cittadini (ticket sulla farmaceutica) oggi in Italia ammonta a 1,6 miliardi di euro (15,8% della spesa farmaceutica convenzionata) di cui il 70% è data dalla differenza di prezzo tra il medicinale a brevetto scaduto branded prescritto e il prezzo di riferimento definito dalle liste di trasparenza AIFA, con un valore di spesa pari a 1 miliardo 126 milioni di euro, in crescita del + 7,2% rispetto all’anno precedente. La stessa compartecipazione alla spesa, purtroppo, è anche un freno all’aderenza alle terapie da parte del cittadino. È questo lo scenario emerso durante il webinar “Farmaci equivalenti. Opportunità clinica ed economica. Come proporli in maniera corretta, organizzato da MOTORE SANITÀ, in collaborazione con Mondosanità e con il contributo incondizionato di TEVA.

I farmaci equivalenti rappresentano uno strumento che permette di ottimizzare la spesa farmaceutica non tanto bloccando i consumi, imponendo sconti o tagliando i prezzi, ma mirano ad aumentare l’efficienza del sistema, cioè a dare più salute a parità di risorse spese, attraverso il ripristino della concorrenzialità e stimolando la price competition dei produttori – ha spiegato Giorgio Colombo, Direttore Scientifico Cefat Centro di Economia e valutazione del Farmaco e delle Tecnologie Sanitarie, Università degli Studi di Pavia -. A titolo di esempio, dalla scadenza del brevetto il principio attivo telmisartan ha ottenuto una riduzione del 70% del prezzo, ciò significa che oggi possiamo trattare lo stesso numero di pazienti con telmisartan risparmiando il 70% di spesa, oppure possiamo trattare più pazienti a parità di spesa”.

Ma c’è un aspetto da considerare. “Un miliardo 126 milioni di euro è il valore del ticket che i cittadini pagano per avere un farmaco generico branded, mentre un farmaco equivalente sarebbe offerto ad un prezzo gratuito dallo Stato, ma questo i cittadini non lo sanno. Il semplice stimolo dal lato dell’offerta non è sempre sufficiente a permettere una buona diffusione del farmaco equivalente, solo le nazioni che hanno seguito una politica riguardante anche il lato della domanda (paziente e medico prescrittore) sono riuscite ad aumentare la cultura a favore del farmaco equivalente puro e di incrementare la vendita di farmaci equivalenti. Credo – ha aggiunto Colombo – che sia necessario, in un momento in cui le risorse sono scarse, prima di tagliare la spesa per l’assistenza sanitaria, guardare in primo luogo alle opportunità per migliorare l’efficienza. Tutti i sistemi sanitari ovunque potrebbero ottenere un migliore utilizzo delle risorse attraverso migliori pratiche di acquisto, un uso più ampio di prodotti generici, migliori incentivi per fornitori o procedure amministrative di finanziamento semplificate”.

La compartecipazione alla spesa è anche un freno all’aderenza alle terapie da parte del cittadino. Lo dimostrano diversi studi internazionali. “I risultati dimostrano che quando si cambia la rimborsabilità del farmaco si assiste in tutte le aree terapeutiche ad una riduzione di aderenza alla terapie e accade soprattutto ai soggetti che devono affrontare pluri-terapie al mese – ha concluso Giorgio Colombo -. In questi casi si può arrivare a spendere cifre che vanno oltre i 20-30 euro di compartecipazione e quando si superano queste cifre si assiste sempre e comunque a delle modifiche di aderenza delle terapie da parte di pazienti. La compartecipazione dunque non è semplicemente un problema di ticket, diventa anche un problema di pagamento, che il cittadino può evitare, e anche un problema clinico”.

Francesca Moccia, Vice Segretaria Generale Cittadinanzattiva è stata altrettanto chiara. “Il messaggio non è sempre così univoco, i cittadini colgono queste contraddizioni se non c’è una fiducia nei confronti di medico e farmacisti. Informazione corretta e consapevolezza non significa convincere ma spiegare che esiste la possibilità di scelta. Dobbiamo semplificare la vita alle persone, trovando soluzioni nuove”.

Fin dal 2001 le farmacie hanno dato un contributo notevole alla conoscenza e alla diffusione dei farmaci equivalenti, fornendo quotidianamente ai cittadini informazioni utili a fugare dubbi sulla loro sicurezza ed efficacia. “Purtroppo, talvolta, registriamo ancora resistenze di carattere culturale: alcuni cittadini sono convinti che il prodotto di marca sia più efficace – ha spiegato Marco Cossolo, Presidente Federfarma Nazionale -. Per sfatare simili pregiudizi è necessario che tutti gli operatori sanitari operino in sinergia e diffondano un messaggio univoco, mettendo il paziente al centro di un processo di crescita culturale, basato su un flusso di comunicazione coerente. Le 19 mila farmacie italiane confermano il proprio impegno sul territorio con  l’obiettivo di diffondere capillarmente una corretta informazione sull’utilizzo dei medicinali equivalenti”.

Il cittadino vuole essere certo di trovare in farmacia il farmaco di cui ha bisogno, indipendentemente dalla farmacia in si trova e dal costo che dovrà sostenere. “Il 27% delle persone sono affette da malattie croniche e non si preoccupano di guardare cosa c’è nella scatola, danno per scontato che ci sia un prodotto che qualcuno garantisce – ha spiegato Claudio Cricelli, Presidente SIMG -. Credo che bisogna superare le polemiche “farmaci costosi e farmaci meno costosi” ma bisogna considerare quali sono le ragioni per cui il cittadino, molto più che il medico, scelga per esempio di acquistare un farmaco con il nome commerciale, pagando un differenziale di prezzo: è solo una dinamica che riguarda la sua capacità economica. Quindi non si tratta di liberare risorse ma di spostare delle risorse. La scelta da parte del cittadino di un farmaco branded è legata a consuetudini e a considerazioni pratiche, la più frequente delle quali è quella per cui dovunque vada è certo che lo troverà, mentre il farmaco generico cambia di farmacia in farmacia. In quanto al costo, il differenziale è del 15%-20%, non c’è un abisso tra farmaco generico e farmaco branded”.

Secondo Carmelo Pullara, Vicepresidente VI Commissione Salute, Direttore Generale Territoriale Regione Siciliana i medici di medicina generale, come soggetti erogatori, costituiscono il primo front line per i pazienti e il concetto di spesa e approccio di questi farmaci. “Solo il medico di medicina generale può dare fiducia al paziente sull’utilizzo dei farmaci equivalente. Ma non c’è solo l’importanza da un punto di vista clinico, c’è anche a livello economico perché il loro utilizzo ci può consentire di recuperare delle risorse da reinvestire all’interno del sistema per innalzare la qualità dell’assistenza sanitaria ospedaliera e territoriale”.

Da parte dei medici ospedalieri arriva un appello. “Non esiste un problema di qualità per i farmaci equivalenti ma di cultura e di informazione sul quale lavorare perché chi perde, molto spesso, è il paziente – ha spiegato Francesco Dentali, Presidente Eletto FADOI -. E’ necessaria una campagna di informazione verso il paziente e di informazione e di formazione verso i medici che seppur in percentuali basse, quando il paziente viene dimesso dall’ospedale gli consigliano di acquistare un farmaco griffato”.

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Abbattimento dei costi dell’innovazione terapeutica in oncologia: non più silos ma percorsi trasversali di cura.

Abbattimento dei costi

Le reti possono garantire accesso equo ai nuovi farmaci e corretta informazione agli ammalati

16 Dicembre 2020 – Lo scenario di innovazione tecnologica che si prospetta nei prossimi anni in molte

aree terapeutiche è senz’altro molto ricco di contenuti, che fanno ben sperare i pazienti affetti da malattie

fino a qualche anno fa a prognosi infausta, in una cronicizzazione se non addirittura in alcuni casi in

una guarigione. Un caso paradigmatico di questo evolvere è senz’altro rappresentato dall’oncologia e

dall’oncoematologia, dove lo sforzo di trovare sempre migliori armi per combattere malattie prive di

terapie efficaci e ben tollerate, è stato ed è una vera e propria lotta contro il tempo, per molti ricercatori,

per molti clinici, per molte famiglie. Basti pensare alle ultime linee di terapia del mieloma multiplo per

l’oncoematologia, con aspettativa di vita che non va oltre i 9 mesi, o al tumore ovarico che con 5.200

nuovi casi annui in Italia e circa 30mila le donne attualmente in trattamento, rappresenta il 30% di

tutti i tumori maligni dell’apparato genitale femminile. Ma le tante speranze e la grande voglia di

innovazione devono trovare conciliazione con la sostenibilità dei sistemi sanitari che in tutto il mondo

vedono contrarsi gli investimenti attribuiti alla salute. Le reti oncologiche possono dare un grande

contributo. Per fare il punto sullo stato dell’arte in Regione Veneto, Motore Sanità ha organizzato il terzo

di tre webinar dal titolo “FOCUS VENETO: GOVERNANCE DELL’INNOVAZIONE IN ONCOLOGIA E

ONCOEMATOLOGIA”, che ha visto confrontarsi pazienti, clinici, industria e istituzioni, realizzato grazie al

contributo incondizionato di GLAXOSMITHKLINE e DAIICHI SANKYO.

 

Il carcinoma ovarico è uno di quei tumori che ha avuto in questi anni, in tema di innovazione, una

accelerazione straordinaria cioè sta seguendo, seppur con ritardo, la strada della personalizzazione delle

terapie, della medicina di precisione e della necessità di un sistema organizzato in rete e team

multidisciplinarie per questo potrebbe dare nei prossimi anni grosse soddisfazioni” spiega Giovanni

Scambia, Direttore della Ginecologia Oncologica del Policlinico, Gemelli di Roma.

Ma si pongono due problemi. “In un’epoca di grande innovazione tecnologica bisogna ricordarsi che la

chirurgia è ancora l’arma fondamentale per cui dobbiamo potenziare la nostra Scuola di Chirurgica e

in questo le reti oncologiche ci possono aiutare. In secondo luogo, il tumore ovarico è l’unico tumore in

cui si può fare una chirurgia molecolarmente guidata, ovvero sulla base del dato molecolare attraverso

una chirurgia preventiva possiamo prevenire una quota di tumori ovarici che può arrivare al 15-20%.

Proprio per questo, per il tumore ovarico è importantissimo creare non più silos ma percorsi trasversali

di cura che ci consentano di allocare le risorse all’interno di reti ben predisposte anche sovraregionali”.

 

Le reti oncologiche possono dare anche una risposta di appropriatezza in merito al problema

dell’accesso ai farmaci innovativi e anche delle eventuali disuguaglianze da regione a regione, da

citta e città, da ospedale a ospedale per il loro accesso – spiega Pierfranco Conte, Professore ordinario

di Oncologia Medica dell’Università di Padova e Coordinatore tecnico scientifico della Rete oncologica

veneta (ROV) e Direttore UOC Oncologia Medica 2, IOV IRCCS Padova -. Si tratta di farmaci anche molto

promettenti, ma sicuramente la loro caratteristica è l’innovatività, il che significa che la stragrande

maggioranza degli oncologi che hanno a disposizione questi farmaci non li hanno mai usati, non sanno

come gestirne l’eventuale tossicità, né hanno l’idea diretta e personale di quali sono i pazienti che più hanno

probabilità di beneficiare di questi trattamenti, quindi è necessario insegnare loro come usare questi farmaci

innovativi, attraverso cioè un sistema a rete”.

In Regione Veneto, nel sistema a rete vengono individuati uno o più centri prescrittori di questi farmaci e con

l’aumentare dell’esperienza dei clinici nell’uso di questi farmaci viene ampliata ad altre realtà. Un esempio è

l’immunoterapia nel melanoma, prima riservata unicamente all’istituto oncologico veneto, si è poi ampliata

all’ospedale universitario di Verona e, in una terza fase, ai 5 Hub della rete oncologica, fino all’ampliamento

a tutte le oncologie. “Questo graduale allargamento ha garantito l’appropriatezza, salvaguardato il benessere

dei pazienti ed evitato anche diseguaglianze – prosegue Conte -. Inoltre è estremamente rilevante che

l’innovazione venga sempre trasferita è valutata nella pratica clinica, le reti oncologiche consentono di fare

anche questo e, seppur ancora in modo imperfetto, fornendo delle informazioni importanti”.

 

Sul fronte dei farmaci innovativi ad alto costo per curare il mieloma è già in atto una concertazione con

le aziende farmaceutiche sul prezzo “ma per incidere sulla storia naturale del mieloma e ridurre il numero di

pazienti affetti da questa malattia – spiega  Mauro Krampera, Direttore UOC Ematologia e Centro Trapianto

di Midollo Osseo AOUI Verona – sicuramente bisogna tener conto anche della prevenzione primaria, quindi

cercare di ridurre l’incidenza dei nuovi casi, e poi utilizzare possibilmente terapie radicanti al posto che

terapie che tendono a cronicizzare, e vedremo se le CAR-T mantengono le promesse, e essendo tutti farmaci

 ad alto costo in combinazione possono sforare il budget e la disponibilità finanziaria per cui è necessaria una

concertazione con le aziende farmaceutiche sul prezzo dei farmaci che già quello che si sta facendo”.

 

Chi, soprattutto in questo momento, ha la possibilità di avere una rete oncologica è privilegiato “sia per

produrre PDTA sia per raggiungere il territorio, inteso come ospedali più piccoli e cittadinanza, la quale deve

essere assolutamente informata sulle nuove possibilità terapeutiche” spiega Gianpietro Semenzato,

Coordinatore Tecnico Scientifico Rete Ematologica Veneta (REV) e Professore Ordinario di Ematologia

dell’Università di Padova. “Sulla raccolta di dati è pensabile una cabina di regia che regola in tutta Italia tutti i

pazienti che vengono trattati, ma è di difficile applicazione”.

 

Secondo Valentina Guarneri, Professore Associato Oncologia 2, IOV IRCCS di Padova è necessario fare un

salto in avanti culturale sulla gestione del dato “perché oggi ciò che ci paralizza sono i consensi informati,

le tante autorizzazioni “burocratiche”, abbiamo ormai dei modi di analizzare il dato per cui niente viene a violare

la privacy. Immediatamente all’esplosione della pandemia abbiamo lavorato in tempo reale e creato un protocollo

per la raccolta dei dati dei pazienti oncologici, io personalmente ho dovuto chiedere autorizzazione formale a 25

comitati etici per avere i dati di 25 centri oncologici che avevano aderito a questo processo. Tutto questo è

paralizzante nell’ottica di avere, in un momento soprattutto di emergenza sanitaria in cui si serviva avere in tempo

quasi reale i dati, questo non è accaduto in altro Paesi”.

 

Sull’importanza di un’informazione che sia corretta, bilanciata e aggiornata le Associazioni hanno un ruolo

importante. “Sono in prima linea – spiega Sabrina Nardi, responsabile AIL Pazienti – perché abbiamo visto quanto

l’evoluzione anche della ricerca, l’evoluzione dei saperi dei nostri ematologi progrediscano rapidamente, quindi è

importante che i pazienti abbiano punti di riferimento qualificati credibili”.

 

Infine, secondo Carlo Saccardi, Clinica Ginecologica Ostetrica, Università degli Studi di Padova “la vera sfida è

superare il personalismo per cercare di garantire il massimo che c’è in letteratura e quindi aumentare l’esperienza,

le possibilità di ricerca, la multidisciplinarietà e la comunicazione tra tutti i professionisti anche per migliorare

l’organizzazione, perché nei centri dove c’è grande esperienza c’è maggior organizzazione. Nei momenti di crisi

come questo, una buona organizzazione permette di non cedere sul minimo sindacale per la paziente, e in

oncologia credo che il minimo sindacale sia il massimo possibile, non si può derubricare da questo neanche in

epoca di Covid

 

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L’avanzata dei farmaci equivalenti: «Ampliare in Italia la platea dei consumatori significa sostenere imprese e ricerca liberando i cittadini dal pericolo della dipendenza da produttori stranieri»

farmaci equivalenti

16 Dicembre 2020 – All’evento conclusivo del convegno on line “Farmaci equivalenti. Opportunità clinica ed economica. Come proporli in maniera corretta, organizzato da MOTORE SANITÀ, in ollaborazione con Mondosanità, con il contributo incondizionato di TEVA, è intervenuto Roberto Ciambetti, Presidente del Consiglio regionale del Veneto e Vicepresidente del Bureau del Comitato Europeo delle Regioni (CdR) che ha sottolineato l’importanza che ha questo tema per l’intera Europa, anche in un giorno in cui il presidente Luca Zaia ha candidato Venezia e il Veneto a ospitare la sede dell’autorità per la preparazione della risposta all’emergenza sanitaria e dell’Unione Europea.

Mi auguro che il Governo italiano sostenga questa candidatura, che non solo premia l’intera sanità veneta ma costituisce anche una grande occasione di sviluppo per la nostra regione e per l’intera nazione. Anche in questo contesto, questo dibattito è importante e ha una valenza continentale”.

L’Europa ha l’occasione storica di diventare centro di ricerca, sviluppo e produzione di farmaci equivalenti che avranno un ruolo chiave nell’emancipazione sanitaria di interi continenti.

Il convegno è importante perché si chiede come proporre questi farmaci in maniera corretta, nodo non semplice,  soprattutto in una realtà come quella italiana dove la disinformazione sanitaria ha una vasta e ampia platea, aspetto integrante del problema della diffusione di un’autentica cultura della salute che non può prescindere dal rispetto dell’evidenza scientifica di quanti si sono formati come medici, farmacisti e infermieri. C’è un vuoto clamoroso tra i cittadini di conoscenza, con troppi che si affidano a motori di ricerca e a internet senza capire che la medicina e la farmacia sono scienze, mentre l’incompetenza e l’ignoranza sono malattie pericolose. Riuscire oggi ampliare la platea anche nel nostro paese di consumatori di farmaci equivalenti significa sostenere le imprese, la ricerca, una linea produttiva all’avanguardia, liberando i nostri cittadini dal pericolo della dipendenza da  produttori stranieri e dalle loro forniture. Non dimenticate mai che chi controlla i soldi controlla gli Stati, ma chi controlla alimenti e farmaci controlla i popoli”.

Secondo Roberto Ciambetti il tema dei farmaci equivalenti è strategico per l’intero mondo della sanità non solo Europea, anche se l’Europa in questo può essere il motore di una svolta epocale.

“Sappiamo che in Europa esiste una disparità incredibile nel consumo dei farmaci equivalenti con l’Italia negli ultimi posti della classifica, dominata da Olanda, Germania, Regno Unito, Francia, anche se paradossalmente il 90% dei nostri connazionali, contro una media Europea del 63%, conosce perfettamente i farmaci equivalenti. Nonostante questa conoscenza, anche all’interno della nostra nazione registriamo comportamenti profondamente diversi rispetto alle macro-aree del Nord che vantano il maggior consumo di farmaci equivalenti rispetto al Centro-Sud”.

Con la scadenza della protezione delle proprietà industriali entro la fine di quest’anno più di 90 miliardi di euro di medicinali biologici di prima generazione di grande successo saranno aperti alla concorrenza dei biosimilari.

Per quanto riguarda i farmaci equivalenti, la loro avanzata è inequivocabile a livello planetario catalizzando il 70% del mercato a volumi, 23% a valori, nell’America del Nord, il 62%, 29% a valori, nel mercato europeo, il 40%, il 18% a valori nel mercato giapponese – snocciola i dati Ciambetti -. Questi farmaci sono la principale speranza di cura nei territori africani, 69% a volumi e 49% a valori, asiatici 71% a volumi e 43% a valori, e latino-americani 80% e 65% rispettivamente a valori. In questo scenario l’Unione Europea ha adottato un regolamento che dovrebbe contribuire alla competitività dell’Europa come polo di ricerca, sviluppo e produzione in ambito farmaceutico”.

Secondo studi fatti prima dell’ondata del Covid-19, nei prossimi dieci anni la produzione europea dovrebbe conoscere un aumento annuo, costante delle vendite, nette all’esportazione, con la creazione di almeno 20.000-25.000 posti di lavoro, pari a circa un incremento del 10% della forza lavoro oggi esistente nel comparto.

Probabilmente l’epidemia Sars-Cov-2 porterà ad un’accelerazione ulteriore, stante la necessità di conciliare gli equilibri di bilancio con l’esigenza di garantire a tutti l’accesso alle cure. La salute non ha prezzo, ma la sanità ha un costo, non dimentichiamolo mai, e ogni forma di razionalizzazione e contenimento della spesa ben venga. I farmaci equivalenti portano risparmi, curano non solo l’essere umano ma anche i conti

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Farmaci equivalenti: “Dopo anni, pur garantendo sostenibilità al SSN e risparmio ai cittadini, il loro uso in Italia è ancora a macchia di leopardo”

Farmaci equivalenti

15 dicembre 2020 – I farmaci equivalenti avendo stesso principio attivo, concentrazione, forma farmaceutica, via di somministrazione e indicazioni di un farmaco di marca non più coperto da brevetto (originator), sono dal punto di vista terapeutico, equivalenti al prodotto di marca ma molto più economici, con risparmi che vanno da un minimo del 20% ad oltre il 50%. Questo è fondamentale per mantenere sostenibile l’SSN, consentendo da un lato di liberare risorse indispensabili a garantire una sempre maggiore disponibilità di farmaci innovativi, dall’altro, al cittadino di risparmiare di propria tasca all’atto dell’acquisto dei medicinali. Ma l’uso del farmaco equivalente in Italia è ancora basso rispetto ai medicinali di marca, dall’analisi dei consumi per area geografica, nei primi nove mesi 2019 si è visto come il consumo degli equivalenti di classe A sia risultato maggiore al Nord (37,3% unità e 29,1% valori), rispetto al Centro (27,9%; 22,5%) e al Sud Italia (22,4%; 18,1%). Per fare il punto sulla situazione in Italia, ultimo di una serie di appuntamenti, MOTORE SANITÀ, in collaborazione con Mondosanità, ha organizzato il Webinar ‘FARMACI EQUIVALENTI OPPORTUNITÀ CLINICA ED ECONOMICA: COME PROPORLI IN MANIERA CORRETTA’, realizzato grazie al contributo incondizionato di TEVA.

Le farmacie, fin dal 2001, hanno dato un contributo notevole alla conoscenza e alla diffusione dei farmaci  equivalenti, fornendo quotidianamente ai cittadini informazioni utili a fugare dubbi sulla loro sicurezza ed efficacia. Purtroppo, talvolta, registriamo ancora resistenze di carattere culturale: alcuni cittadini sono convinti che il prodotto di marca sia più efficace. Per sfatare simili pregiudizi è necessario che tutti gli operatori sanitari operino in sinergia e diffondano un messaggio univoco, mettendo il paziente al centro di un processo di crescita culturale, basato su un flusso di comunicazione coerente. Le 19.000 farmacie italiane confermano il proprio impegno sul territorio con l’obiettivo di diffondere capillarmente una corretta informazione sull’utilizzo dei medicinali equivalenti”, ha spiegato Marco Cossolo, Presidente Federfarma Nazionale

“È stato un importante confronto che ha dimostrato la necessità che tutti gli stakeholder continuino a parlare del  valore del farmaco equivalente.  La sfida è lavorare insieme per avere azioni concrete a livello locale, regionale per aumentare l’utilizzo di farmaci equivalenti”, ha aggiunto Umberto Comberiati, Business Unit Head Teva Pharmaceutical

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