In Italia ogni anno vengono eseguiti circa 90.000 impianti di pacemaker o defibrillatori che la ricerca clinica e tecnologica ha reso sempre più innovativi e con altissimi standard qualitativi in termini di efficacia, sicurezza e comfort per il paziente (correlato alle dimensioni molto ridotte).
Tuttavia uno dei parametri che non sempre viene correttamente considerato e valorizzato è quello relativo alla loro longevità intesa come durata della loro batteria.
A fronte del progressivo invecchiamento della popolazione è importante poter disporre di dispositivi più longevi, in quanto permettono di ridurre il numero delle sostituzioni e, contemporaneamente, il rischio di complicanze. In particolare, nell’ambito della elettrofisiologia, tra i dispositivi di qualità e tecnologicamente innovativi, riveste particolare importanza la recente disponibilità di defibrillatori cardiaci impiantabili (ICD) e dispositivi per la terapia di risincronizzazione cardiaca (CRT-D) definiti “a lunga durata”, in quanto sono i più longevi al mondo, con proiezioni di durata reale compresa tra i 9 e i 13 anni. Efficacia, sicurezza, piccole dimensioni, maneggevolezza per il medico che effettua l’impianto sono prerequisiti irrinunciabili nella scelta di un dispositivo salvavita come un pacemaker o un defibrillatore, ma l’elemento che può fare la differenza è soprattutto la longevità del dispositivo per cardiostimolazione, di cui il principale determinante è proprio la durata della batteria.
La longevità del dispositivo è un elemento di valutazione strategico per i medici che effettuano gli impianti, ma l’argomento tocca concretamente e da vicino anche i pazienti. È provato infatti che ben il 73% dei pazienti si preoccupa della durata del dispositivo, al fine di evitare o rimandare quanto più possibile il rischio di un secondo intervento. In termini statistici, il 70% dei pazienti impiantati necessita di almeno una sostituzione nel giro di pochi anni e il 40% di almeno due. Una maggiore longevità dei dispositivi comporta quindi un minor numero di sostituzioni con vantaggi evidenti non solo in termini di riduzione dei rischi ma anche economici.
Le Aziende che producono tali dispositivi hanno da sempre posto particolare attenzione alla evoluzione tecnologica delle batterie, generando una sana competizione atta a massimizzare la durata dei dispositivi e cercando di eliminare il disallineamento tra longevità del paziente e del dispositivo. Diviene quindi evidente la difficolta imposta dal cosiddetto “strabismo decisionale”, implicitamente imposto a chi amministra la Spesa Pubblica, a cui, oltre al necessario controllo dei costi nell’immediato – caratterizzante un Sistema Sanitario focalizzato esclusivamente sulla riduzione (lineare) della spesa pubblica – spetta anche il compito di affrontare il tema della valorizzazione dell’impegno in ricerca e innovazione in fase di acquisizione del bene, in un’ottica di stimolo alla qualificazione dell’offerta e di garanzia della qualità di vita dei cittadini.
D’altro canto la domanda che ci si dovrebbe porre non è “quanto dura?” ma “quanto deve durare un ICD?”. La risposta, seppur non semplice, va ricercata nei dati epidemiologici (età media all’impianto, dati di sopravvivenza per profilo di rischio, ecc.). Idealmente, al fine di limitare drasticamente il numero di sostituzioni, e quindi ridurre il rischio infettivo possiamo stimare che la longevità di un ICD mono o bicamerale dovrebbe essere pari a circa 20 anni mentre la longevità di un CRT-D dovrebbe essere pari a circa 15 anni. I nuovi dispositivi, secondo l’impostazione tipica dell’HTA, devono essere valutati anche secondo parametri economici e di sostenibilità, considerando la delicatezza del tema e le aspettative dei pazienti. Questo approccio è assolutamente in linea con il nuovo Codice Appalti, che menziona chiaramente la necessità di una valutazione che consideri l’intero ciclo di vita del prodotto.
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